A sedici anni sfasciò in Canada una Fiat 124 spider pochi giorni dopo averla avuta in regalo, a quasi sessantanni, cinquantanove per la precisione, rischia di mandare a pezzi l’intera fabbrica automobilistica che guida spericolatamente da più di un lustro. Il Sergio Marchionne che abbiamo di fronte è alla terza reincarnazione nel giro di poco tempo. Tre vite per un sol uomo non sono poche, soprattutto se lo stesso prologo è stato ricco di fatti e prodezze.
I suoi biografi ci hanno raccontato, infatti, l’iniziale vita ordinata del figlio di un maresciallo dei carabinieri emigrato a Toronto per cercar fortuna e dare un avvenire ai due figli. Come nelle classiche leggende nordamericane, il giovane, e all’epoca rotondetto, immigrato divora in poco tempo i gradini della scala sociale senza perdere mai i contatti con le sue origini, si tratti dei parenti chietini oppure della sezione dell’arma dei carabinieri di Toronto che, dopo la morte del padre Concezio, accetta di guidare.
I successi nel big management sono così travolgenti che lo portano alla Fiat dove Umberto Agnelli gli apre quella strada che alla sua morte lo spingerà al vertice, dapprima in compagnia di Luca Cordero di Montezemolo e poi di John Elkann. Ma questi sono solo i titoli di testa o, se preferite l’antefatto, del film sulle tre vite di Sergio Marchionne.
La storia racconta che la prima vita vede il nuovo manager impegnato a salvare un’azienda su cui nessuno scommetterebbe più. È in questa vita che Marchionne costruisce la sua solida fama di manager di poche parole e, soprattutto, di pochissime cravatte, sostituite da un maglioncino d’ordinanza che nel giro di poco tempo lo segnala alla grande opinione pubblica e, come sempre accade, all’apologia dei suoi nuovi ammiratori. L’Italia sembra aver trovato il manager che sognava. Soprattutto la sinistra se ne innamora. Chiamparino, sindaco di Torino, mangia la pizza con lui un paio di volte l’anno. I sindacalisti tessono le lodi di questo dirigente d’impresa che concede poco ma sembra preso dalla voglia di collaborare. È un Marchionne taciturno e sobrio quello che occupa la scena nelle sequenze lunghe della prima vita. Finché il copione non cambia radicalmente.
La seconda vita vede Marchionne alle prese con un’azienda che, malgrado le illusioni nate con il successo della nuova Cinquecento, non riesce a decollare e si avviluppa nei suoi storici guai.
Il nuovo Marchionne ha due facce. Quella americana, che lo mostra al centro di una ragnatela di rapporti che raggiunge persino Obama per stringere l’accordo con la Chrisler. E quella italiana, che diventa via via più dura, i sindacati di sinistra dicono “proterva”, con l’imposizione di una linea di relazioni industriali al limite della rottura, con i licenziamenti degli operai più riottosi, con i nuovi accordi in cui si restringono i margini di manovra e di movimento dei sindacati. Anche questo Marchionne entusiasma la politica. Non solo i berlusconiani e i centristi ma persino uomini di primo piano del Pd, da Chiamparino, a D’Alema, a Veltroni agli ex popolari.
È in questa seconda vita che Marchionne apprende che le bastonate alla politica possono rendere in termini di immagine. Mentre la sinistra sindacale e l’area radical lo descrivono come un novello restautatore di vecchi miti padronali, l’altra politica lo elegge a suo ideale rappresentante. I giornali berlusconiani e la Lega smettono di ricordargli gli antichi privilegi che l’azienda ha strappato allo Stato e tutti si inchinano davanti all’uomo forte che ha piegato i sindacati, tranne quel Maurizio Landini, leader della Fiom che si fece le ossa con i primi scioperi contro le cooperative rosse nella sua Emilia Romagna.
Gli apologeti non scorgono già in questa vita di Marchionne i segni di un ulteriore cambiamento. L’uomo forte della Fiat, senza dare alcuna spiegazione sui suoi progetti e anzi minacciando frequentemente l’abbandono dell’Italia da parte della Fiat, strattona il sistema politico in modo inconsueto e irrituale fra gli applausi scroscianti.
Arriva qui il terzo Marchionne, quello di questi giorni. Non è più il manager che appare socialdemocratico agli ex comunisti torinesi e neppure il Valletta redivivo che maltratta i sindacati. Il Marchionne tutto nuovo è quanto di più vecchio si possa immaginare. Lo abbiamo visto precipitarsi fra gli stand di Comunione e Liberazione, contendere in armonia con il giovane Elkann della più disinvolta associazione politica del conservatorismo cattolico. Il manager austero e di poche parole cede il passo al leader ciarliero che riempie i taccuini dei cronisti politici. Fino al colpo di teatro con quella dichiarazione a sorpresa che tira la volata a Luca Cordero di Montezemolo. Il terzo Marchionne si è mangiato i primi due e anche il ricco prologo.
Molti penseranno, dopo le sue parole e quelle di Elkann, alla storia della Fiat e alla sua lunga convivenza, e persino connivenza, con la politica. Fu connivenza con il fascismo, fu convivenza con i partiti della prima repubblica. Era una Fiat autorevole che seppe muoversi con abilità nell’orbita governativa senza mai apparire fiancheggiatrice di un partito. Umberto Agnelli divenne senatore dc per un breve periodo ma la famiglia non ne fu contenta e tutto finì lì. Suni Agnelli fu parlamentare repubblicano e membro del governo ma la Fiat sembrò estranea alla sua avventura. Gianni Agnelli amava la politica e si racconta che interrogasse i suoi cronisti preferiti sul gossip romano, come faceva con altrettanta morbosità per le imprese dei calciatori, ma si tenne lontano dai palazzi romani che sbeffeggiò quando incrociò le lame con Ciriaco De Mita. Persino Romiti, il coriaceo mastino romano-torinese, ebbe i partiti in gran sospetto al punto che quando volle creare un fatto politico si inventò la marcia dei quarantamila che cambiò la scena sociale e sindacale italiana.
Insomma Marchionne non ha nella storia Fiat un precedente. Ce l’ha invece nella recente storia imprenditorial-politica italiana se pensiamo alla Fininvest, a Publitalia e alla discesa in campo di Silvio Berlusconi. Questo terzo Marchionne, tuttavia, non è neppure la copia di Fedele Confalonieri che resistette fin che potè all’ambizione politica del suo capo ma rischia di prendere il posto che fu di Marcello Dell’Utri, semplice e freddo esecutore dei voleri berlusconiani. Che bisogno ha la Fiat di dellutrizzarsi? L’azienda che è stata portabandiera del marchio Italia nel mondo dovrebbe garantirsi la sopravvivenza e il successo con i suoi prodotti. Il suo management andrebbe misurato sulla capacità di far attraversare l’attuale bufera economico-finanziaria dell’impresa dell’auto. Anche il confronto con il sindacato, persino nella sua asprezza, è un termine di riferimento nella costruzione di relazioni industriali in grado di entrare nei nuovi tempi. Tutto, insomma, è possibile e giustificabile meno che la mortificante replica di Publitalia. Non serve alla Fiat. Anzi gli fa danno. Non serve neppure a Luca Cordero Di Montezemolo che può intercettare scontento e aspettative diffuse ma non può fare la scimmia a Silvio Berlusconi. Nasce da qui il timore che la terza vita di Marchionne finisca là dove iniziò la primissima, con quella Fiat finita in pezzi che nessuno può più rimettere assieme.