Ora in Tunisia i musulmani dicono di volere il califfato

Ora in Tunisia i musulmani dicono di volere il califfato

TUNISI – Un califfato per la nuova Tunisia. È questo «l’obiettivo ultimo» al quale ha detto di aspirare il capo di Ennahdha, il partito islamico tunisino, durante un’intervista rilasciata a Sabah el khir ya Masr (Buongiorno Egitto), il 3 agosto scorso. Non è certo un caso che Rached Ghannouchi abbia scelto il Cairo, dove i Fratelli musulmani stanno crescendo, per rilasciare una dichiarazione che a Tunisi ha subito messo in allarme tutti i partiti che lottano per difendere quella laicità che ha sempre contraddistinto la Repubblica tunisina dall’indipendenza nel 1956 fino a oggi.

Il califfato è stato la forma classica del governo della società nella storia del mondo arabo-islamico che è poi stato superato dai cambiamenti importantissimi, spesso traumatici, che l’incontro/scontro con la modernità europea ha provocato nella cultura arabo-islamica. L’idea di resuscitare il califfato non si risolve semplicemente in un richiamo alle tradizioni dell’Islam e ai primi secoli d’ora dell’era islamica, ma tradotto in termini politici significa proporre una religione che è anche Stato, pretendendo di annullare quel processo contrastato ma storicamente inequivocabile che ha portato all’introduzione del modello statuale di derivazione europea nella società arabo-islamica.

Va da sé che il califfato non ha nulla a che vedere con la democrazia e il fatto che se ne parli nei termini di un «obiettivo ultimo», lasciando spazio a soluzione di compromesso nel medio periodo, non può certo rassicurare quanti sperano in una vera transizione alla democrazia per la Tunisia. Il califfato presuppone un califfo che governi nel nome di Allah per la difesa dell’Islam e la buona amministrazione della società, nulla a che vedere con il principio di divisione dei poteri, pluripartitismo e alternanza al governo che sono invece i punti di riferimento dei partiti laici.

Non è un caso che Ennahdha a Tunisi più che parlare di califfato faccia invece riferimento al modello della Turchia, che rischia di essere la vera potenza regionale emergente dallo sconquasso delle rivoluzioni arabe. Sicuramente la discrasia tra posizioni così differenti è la spia che Ennahdha non è affatto così compattamente univoca come si vorrebbe far credere, ma al suo interno è in corso un contrasto tra posizioni e politiche differenti.

In queste settimane, sono almeno altri due gli elementi che, apparentemente indipendenti, possono invece contribuire a comporre un quadro sempre più incerto. Il 2 agosto scorso si sarebbero dovute chiudere le iscrizioni alle liste elettorali in vista delle elezioni per la Costituente nel prossimo ottobre. In una situazione normale l’inaffidabilità dei dati anagrafici esistenti sarebbe stata recuperata con un nuovo censimento generale, ma nella contingenza rivoluzionaria si è dovuto scegliere una soluzione più rapida: chi vuole votare si deve iscrivere.

La notizia è che dopo settimane di continui appelli da parte di tutte le forze politiche solo il 20% dei probabili aventi diritto ha deciso di iscriversi, 1.700.000 su più di sette milioni stimati. Le autorità provvisorie hanno deciso di rinviare la scadenza al 14 agosto nella speranza di evitare un fallimento fin dalla base della transizione alla democrazia. È ovvio che se alle prossime elezioni dovesse votare una percentuale esigua della popolazione la transizione sarebbe di per sé compromessa e una simile possibilità è tutt’altro che remota.

Non ci si iscrive perché semplicemente non si sa di doverlo fare, non si capisce la procedura e, in un paese che da decenni non ha elezioni libere, una simile constatazione non deve stupire. Non ci si iscrive per protestare contro un governo provvisorio che fatica a occuparsi dei problemi quotidiani della gente comune alle prese con una crisi economica crescente. Ma soprattutto sono i giovani a non iscriversi per apatia e disinteresse verso le istituzioni, la politica e i partiti che hanno non poche difficoltà a governare una transizione nata da un sommovimento popolare. È allora probabile che se questo elettorato giovane non cambierà idea iscrivendosi in massa, i partiti laici perderanno un potenziale di voti consistente, favorendo indirettamente Ennahdha.

Sono di giovedì 4 agosto le notizie di scontri tra decine di persone a Jebeniana nel Centro geografico del paese, ma nel suo Sud politico. Il governo centrale è stato costretto a dichiarare il coprifuoco nella città e a richiedere l’intervento dell’esercito. Senza dubbio si tratta di scontri di natura tribale, innescati da conflitti famigliari che hanno portato alla mobilitazione dell’intera qabila, il clan. Dall’indipendenza della Tunisia lo Stato centrale ha sempre lottato con le identità particolaristiche dei gruppi tribali, specie nel Sud del paese, e fino all’avvento della Rivoluzione molti credevano che il governo fosse riuscito in questa impresa.

Evidentemente non è così. Il ricorso a una logica del clan nell’ambito nel nuovo sistema multipartitico in fase di gestazione è forse il pericolo maggiore di cui nessuno per il momento ha lanciato l’allarme. Si tratta sicuramente di fenomeni per il momento circoscritti, ma va tenuto a mente che la guerra in Libia come quella dimenticata da ormai venti anni in Somalia si alimentano proprio grazie alla cooptazione delle alleanze famigliari all’interno del sistema politico e di una loro ristrutturazione in chiave competitiva/conflittuale. Anche questo è un effetto congiunturale che potrebbe aiutare Ennahdha a guadagnare consensi oltre quel 25-30% sul quale è per ora attestato, tanto più se si pensa che il partito islamico sembra più radicato nelle zone rurali nella Tunisia centro-meridionali piuttosto che nelle grandi città del Nord.

*Docente in Storia dell’Africa, Università di Pavia
 

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