Parla Bernanke, in 5 punti ecco perché è importante

Parla Bernanke, in 5 punti ecco perché è importante

Da pochi istanti Ben Bernanke ha concluso il suo intervento al meeting di Jackson Hole. Cinque brevi domande e risposte per capire cosa ha detto, cosa disse in passato, e soprattutto perché ci dovrebbe interessare. 

Cos’è Jackson Hole e perché se ne parla tanto?
È una piccola cittadina sulla sommità di una valle ai piedi dei monti Teton, nel nordovest del Wyoming. Nei paraggi si trova il ben più famoso parco naturale di Yellowstone. Fino a qualche anno fa, la località era famosa per ospitare una tappa della Coppa del mondo di sci e un festival cinematografico dedicato alla natura selvaggia. Scoperta nel 1907 da John Colter, uno dei membri della spedizione organizzata nel 1803 da Thomas Jefferson per esplorare i territori lungo il fiume Missouri dopo l’acquisto dell’allora Louisiana, un territorio di oltre 2mila chilometri quadrati, per 60mila franchi francesi di allora. Dal 1978, la Fed di Kansas City organizza il simposio di Jackson Hole, che fino al 1981 era dedicato a tematiche di economia agraria. Soltanto dal 2008, tuttavia, l’incontro ha attirato l’attenzione dei media mondiali. Alcuni paper presentati nelle riunioni del 2003 e del 2005, che predicevano la crisi mondiale e il rischio subprime, hanno contribuito ad alimentarne il mito. Tradizionalmente, sono invitati i banchieri centrali dei principali Paesi del mondo.

Perché l’appuntamento è così atteso dai mercati?
Sebbene il numero uno della Federal Reserve, (la banca centrale statunitense), Ben Bernanke, abbia tenuto il suo primo discorso nel lontano 2006, è dal 2008 che i suoi annunci cambiano i corsi dei mercati azionari. Nell’agosto 2007, quando la crisi finanziaria mostrava le prime avvisaglie, Bernanke disse che la più grande preoccupazione della Fed riguardava l’inflazione, ma pochi giorni dopo, attraverso un comunicato, dichiarò che la Fed sarebbe stata pronta a iniettare liquidità sui mercati per stabilizzarli e ad abbassare il tasso di sconto sui prestiti emergenziali concessi alle banche Usa in eventuale difficoltà. Un anno dopo, nel 2008, prima del fallimento di Lehman Brothers e dopo il salvataggio di Bear Stearns, Bernanke sottolineò la lentezza delle misure per arginare i rischi sistemici, e l’assenza di un coordinamento globale per affrontarli. Nel 2009, per la prima volta, le parole del presidente della Fed ebbero un immediato effetto tangibile sui corsi azionari. Dopo i massicci bailout per evitare il fallimento di Fannie Mae, Freddie Mac (le due agenzie governative che garantiscono i mutui Usa) di Aig, il più grande colosso assicurativo mondiale, e l’avvio della prima fase di Quantitative easing (QE) nel novembre 2008, il presidente della Fed affermò: «Dopo una profonda contrazione nel corso dell’anno scorso, l’attività economica sembra appiattirsi, tanto in Usa che nel resto del mondo, ma le prospettive per un ritorno della crescita, sul breve termine, sembrano buone». È l’anno scorso, tuttavia, che le fatidiche parole di Bernanke: «la Fed mantiene una serie di strategie e strumenti per fornire ulteriori stimoli all’economia», fecero scattare un rally dell’S&P 500 durato quasi 8 mesi. A novembre dell’anno scorso, infatti, venne annunciato un nuovo QE da 600 miliardi di dollari. 

Cosa significa la sigla “QE3”?
Tutti ne parlano, ma nessuno se l’aspetta davvero. La sigla indica la terza fase di “allentamento quantitativo”, un brutto termine che indica le misure non convenzionali di politica monetaria adottate dalla Fed per stimolare la ripresa economica dopo il fallimento di Lehman Brothers. Nella prima fase del programma, partito a novembre 2008, la Fed ha acquistato passività legate ai mutui subprime dalle banche statunitensi, pagandole con nuova moneta elettronica, per abbassarne prezzo e rendimento una volta che i tassi d’interesse sono già bassi. Nel marzo 2010, la cifra si è alzata a 1.700 miliardi di dollari in titoli di Stato, derivati basati su mutui subprime e asset di Fannie Mae e Freddie Mac. Non riuscendo a rispettare i suoi due mandati principali, ovvero mantenere tasso di disoccupazione “a un livello sostenibile” così come controllare l’inflazione, lo scorso novembre la Fed ha messo sul piatto altri 600 miliardi di dollari per acquistare nuovi Treasuries, i titoli di Stato Usa, in modo da abbassare il prezzo del dollaro e favorire le esportazioni. Il QE2 è terminato lo scorso giugno. 

Perché tutti gli analisti in questi giorni hanno detto che non ci sarà un nuovo “QE3”?
Nel corso dell’ultimo meeting del Fomc, il braccio della Fed che si occupa della politica monetaria, Bernanke aveva deciso (nonostante il voto negativo di 3 membri su 7 del comitato) di mantenere i tassi a zero fino a metà 2013. Una misura che sui listini ha scatenato una crisi di fiducia sull’economia statunitense dopo il difficoltoso accordo politico sull’innalzamento del tetto al debito federale. A dispetto del declassamento del merito debitorio degli Usa da parte dell’agenzia di rating Standard & Poor’s ad AA+ da AAA, i report delle banche d’affari Goldman Sachs e JP Morgan, che hanno tagliato da 2 a 1% la crescita del Pil Usa, e il crollo dell’indice manifatturiero della Fed di Philadelphia, molti operatori sul mercato considerano improbabile un nuovo pacchetto di stimoli. Per Paul Donovan, capo economista di Ubs: «Le banche centrali non possono fissare contemporaneamente un obiettivo di tassi d’interesse e di quantità di moneta, e nell’ultima riunione il Fomc ha determinato un chiaro target sui tassi». Mohammed El-Erian, amministratore delegato di Pimco, il più grande fondo obbligazionario al mondo, ritiene invece che, in un contesto di crescenti pressioni politiche, e di minori margini di manovra rispetto a un anno fa, «Piuttosto che approntare una nuova iniziativa di politica economica dagli incerti benefici, è meglio che Bernanke usi l’incontro di Jackson Hole per ricalibrare il dibattito politico sull’economia e preparare il terreno per i fondamentali annunci di Obama attesi per il prossimo 5 settembre (il piano per l’occupazione, ndr)». In molti, invece, si aspettano che la Fed allunghi le scadenze dei bond detenuti nel suo portafoglio.

Perché ci dovrebbe interessare cosa dice Bernanke dal Wyoming?
Il 29 giugno scorso, la Fed ha comunicato la proroga di un anno degli accordi temporanei per lo scambio di liquidità con la Bce, la Banca nazionale svizzera, la Banca del Canada e la Banca d’Inghilterra. In sostanza, la Fed presta dollari alle banche centrali, che a loro volta li girano agli istituti di credito domestici. Nel dicembre dell’anno scorso, la Fed ha pubblicato i nomi dei beneficiari dei fondi prestati dalla Fed alle banche di tutto il mondo tra il 2007 e il 2010, tra i quali compaiono Intesa Sanpaolo e UniCredit. Secondo quanto ha rivelato Bloomberg nei giorni scorsi, Piazza Cordusio, fino a marzo 2009, avrebbe ricevuto 11,8 miliardi di dollari, restituendoli dopo 742 giorni, per una media di 4 miliardi quotidiani tra agosto 2007 e aprile 2010. Minore il debito di Cà de’ Sass: 140 milioni di dollari al 4 aprile 2008, restituiti dopo 31 giorni. Oltre alle conseguenze macroeconomiche, tanto dal punto di vista valutario quanto nell’interscambio commerciale tra Italia e Usa, come è facile evincere da questi dati la Fed è stato un canale di finanziamento di primaria importanza durante la crisi del 2008, e non è detto non lo sarà più in futuro, visto l’acuirsi della crisi dei debiti sovrani in Eurozona, che non ha risparmiato l’Italia e le sue banche, i cui bilanci sono ricchi di titoli di Stato.

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