Il Comune di Milano, nel cambio di strategia inaugurato con la vittoria di Pisapia e della sua coalizione, ha manifestato la volontà di risolvere il problema dei luoghi di preghiera delle altre religioni, in particolare di quella islamica: nella prospettiva di arrivare in tempi non lontani all’edificazione in città di una vera e propria moschea. Ed è per oggi la prima convocazione a palazzo Marino delle comunità islamiche: l’incontro sarà tenuto dal vice-sindaco Maria Grazia Guida, la stimata direttrice della Casa della Carità.
È dunque un fatto solo positivo che la questione della presenza musulmana in una metropoli ormai multietnica e certamente multi religiosa arrivi ad una definizione ordinata e condivisa: e tuttavia ci si permette di far notare che, nello slancio del dialogo e dell’incontro, non resti fuori dal cammino intrapreso quello che non può restare un optional, ovvero la Costituzione della Repubblica, pilastro irrinunciabile della nostra convivenza.
Certo, la Costituzione riconosce la libertà di religione e di culto (ovvero il pieno diritto di vivere la propria fede individuale e di praticarla come comunità): ma la inserisce nella cornice della legge e nel sistema delle “intese” giuridiche con lo Stato laico. Per avere la garanzia che la pratica religiosa (per lingua, costumi e credenze) non sia in contrasto con i valori democratici e assicuri forme di leale cittadinanza.
Tutte le religioni infatti hanno stipulato questa forma di accordo con lo Stato, dove riconoscono le regole che presiedono alla comunità civile e si impegnano a farle proprie e a rispettarle. A partire dalla Chiesa cattolica (con la quale esiste l’intesa del Concordato, rinnovato nel 1984) lo Stato italiano, attraverso il ministero dell’Interno, ha sottoscritto nel corso degli anni documenti impegnativi con tutte le confessioni protestanti, con gli ortodossi, con l’ebraismo, con il buddismo e con gli indù, con i Testimoni di Geova. Solo per una religione non si è raggiunta la necessaria “intesa”, e cioè l’Islam, nonostante i tentativi messi in atto per decenni da tutti i ministri dell’Interno, dei più diversi schieramenti politici.
Le ragioni sono diverse, non esclusa l’eterogeneità dei gruppi attivi in Italia, con imam fondamentalisti accanto a comunità moderate. D’altro canto fin dal 1996 numerose inchieste della magistratura hanno accertato la presenza di fiancheggiatori e di supporti non episodici alla galassia del terrorismo islamista. In particolare intorno ai centri islamici di Milano. Sembra allora che il modo peggiore per favorire l’integrazione dei musulmani sia quello di “chiudere gli occhi” di fronte alle responsabilità civili che ogni comunità è chiamata ad assumersi. E in un Paese che sottolinea la sua naturale “laicità civile” non può essere violato il principio di uguaglianza di fronte alla legge, consentendo un ingiustificato privilegio ad alcuni , ovvero riconoscendo “diritti” e insieme prescindendo dai “doveri” verso la collettività.
D’altra parte proprio le figure più impegnate verso l’integrazione delle comunità islamiche hanno una linea di intervento tracciata da tempo da una voce autorevole e rispettata come è stata per Milano l’opera e l’insegnamento del cardinal Carlo Maria Martini. Il cardinale aveva cominciato ad affrontare la questione nel lontano 1990, nel tradizionale “Discorso alla città” per la festa di Sant’Ambrogio. Lasciando sconcertata l’intera classe dirigente meneghina (in particolare la parte politica e mediatica) , l’arcivescovo aveva allora dedicato il suo intervento al tema che appariva marginale, se non inutile. Ragionando sul titolo “Noi e l’Islam” aveva anticipato di gran lunga la riflessione sul problema che si sarebbe poi manifestato con esplosiva drammaticità.
Martini già allora poneva l’accento sulla «necessità di insistere sul processo di integrazione, che è ben diverso da una semplice accoglienza e di una qualunque sistemazione». Infatti – spiegava allora – «…integrazione comporta l’educazione dei nuovi venuti a inserirsi armonicamente nel tessuto della nazione ospitante, ad accettare le leggi e gli usi fondamentali, a non esigere dal punto di vista legislativo trattamenti privilegiati che tenderebbero di fatto a ghettizzarli e a farne potenziali focolai di tensioni e di violenze…». E ancora : «…Se le minoranze religiose hanno tra noi quelle libertà e quei diritti che spettano a tutti i cittadini senza eccezioni, non ci si può appellare, ad esempio, ai principi della legge islamica (la sharī‘a) per esigere spazi e prerogative giuridiche specifiche…».
È questo il nodo del problema, che non a caso agita e inquieta tante altre parti della città e dei territorio e sul quale le istituzioni civili hanno il dovere di pretendere il rispetto delle regole prima di aiutare ad affermare i diritti. Martini allora metteva in guardia dal rischio dello «zelo disinformato». E con larghissimo anticipo avvertiva l’esigenza di salvaguardare il bene prezioso sul terreno civile della «laicità di tutti». E’ una sfida che non può essere perduta.