È una gara contro il tempo quella ingaggiata in questi giorni fra politica e mercati: la prima con i suoi ritmi lunghi, i suoi rituali, le sue consultazioni; i secondi con il loro pragmatismo, la loro rapidità, la loro necessità di chiudere velocemente posizioni. Una gara in cui ci siamo cacciati noi, in cui ci ha cacciato soprattutto Silvio Berlusconi che, se avesse realizzato uno degli obiettivi promessi in questi anni, ci avrebbe evitato questa penosa e drammatica competizione. Ma tant’è, questo è il governo che abbiamo e con questo dobbiamo pensare a salvare il nostro Paese e il suo benessere. Né la gara in corso riguarda solo i mercati. Da battere ci sono anche la demagogia, gli apriori, i maldestri tentativi di rimettere le cose a posto senza toccare nulla e nessuno, la propaganda per cui non toccare le pensioni andrebbe a favore dei giovani (vedi il leghista Marco Reguzzoni), la mancanza di idee e di iniziative, le volontà di prolungare quest’agonia nella speranza di non essere costretti a decidere.
Ma il tempo è un nemico insidioso e quando dietro alla clessidra appare il volto quantitativo-numerico dei mercati ogni minuto è come se contasse per due. Per questo i fiumi di parole dei politici sull’essere in una fase di emergenza mal si conciliano con le novità della giornata. La prima è l’accusa delle parti sociali: «Il governo non ci ha detto cosa farà», la seconda è la frase di Tremonti secondo il quale occorre «ristrutturare la manovra», la terza è l’annuncio che il consiglio dei ministri che dovrà approvare le nuove misure sarà convocato per il 16-18 agosto, fra una settimana.
Ammesso che davvero i mercati siano più preoccupati del deficit italiano che non della mancata crescita, ammesso che la politica monetaria oggi sia un fattore molto più determinante che in passato (ma su cui Roma non può incidere), il governo deve necessariamente premere l’acceleratore sui tempi per consegnare quanto prima una manovra definitiva. Il 18 rischia di essere troppo in là.
L’accelerazione sui tempi è necessaria perché le misure della Bce non possono essere prolungate all’infinito: sono efficaci solo se durano pochi giorni, forse un paio di settimane. Oltre richiederebbero una politica monetaria espansiva per la quale ci vorrebbe un consenso europeo dentro la Bce che attualmente non si vede (a meno che l’economia rallenti fortemente anche in Germania e qualche segnale in questo senso per la verità c’è).
Per raggiungere il pareggio di bilancio, però, nonostante i malumori di Lega e sindacati, l’innalzamento dell’età pensionabile è la via più semplice e anche socialmente meno costosa: in fin dei conti si tratta di lavorare un po’ in più e continuare a essere pagati. Non si licenzia nessuno. Sull’utilità di una patrimoniale ne abbiamo discusso a lungo su questo giornale, ma è chiaro che il farla comporterebbe un altro governo, di tecnici, e quindi non può essere approvata in una settimana.
Le misure di liberalizzazione invece non producono impatto immediato sui conti. Ma sono anch’esse rapide e soprattutto “gratis” nel senso che non richiedono, in buona parte, tagli, anche se poi sono quelle che potrebbero portare i maggiori frutti negli anni a venire, rafforzando la crescita, la ricchezza e quindi la capacità del paese di ripagare il suo debito di 1.900 miliardi (120% del Pil). Per Berlusconi si tratta di costruire un consenso quanto più ampio possibile su un’idea di salvataggio del paese.
E se l’impossibilità di trovare un accordo facesse saltare, questa volta sì, per davvero, il governo? Ecco perché Berlusconi non ha scelta: se non fa nulla, muore schiacciato sotto una montagna di Btp in caduta libera. Se fa qualcosa di incisivo, magari facendo appello al paese per superare le resistenze dei sindacati dei pensionati, forse una qualche residua possibilità ce l’ha. Forse. Forza Cavaliere si faccia coraggio, si mostri quel liberale che vent’anni fa fece sognare, o illudere, mezza Italia. Oppure si faccia da parte. Come nella logica medievale «tertium non datur».