150 milioni per CariFerrara: ma il prezzo non è giusto

150 milioni per CariFerrara: ma il prezzo non è giusto

A Ferrara tutti vanno in bicicletta, e proprio la bici è stata scelta come simbolo per lanciare la campagna sull’aumento di capitale che Cariferrara chiude oggi: 150,2 milioni di euro, al prezzo di 21 euro per azione. La Fondazione, che detiene il 67% delle quote dell’istituto di credito, non ha i soldi per sottoscriverlo, e agli attuali azionisti sono stati offerti in opzione 7 nuovi titoli ogni 34 già posseduti. Nonostante la banca avesse tenuto gli sportelli aperti anche il sabato mattina per tutto il mese di luglio, solo 4 azionisti su 10 hanno esercitato il proprio diritto d’opzione, per 57 milioni di euro complessivi. Poco più di un terzo del totale.

Per il resto, ci si è affidati al cosiddetto “pubblico indistinto”. Il quale, sembra invece aver risposto “presente” alla chiamata della banca, con un’adesione – dicono fonti vicine alla banca – intorno al 98 per cento. Sergio Lenzi, presidente di Carife, aveva già ribadito al Sole 24 Ore, lo scorso marzo, che l’aumento di capitale «Si farà senza problemi grazie al retail».

A leggere bene il prospetto informativo, approvato dalla Consob, viene però qualche dubbio che 21 euro per azione sia un prezzo decisamente alto. Il 7 dicembre 2010, quando il cda ha deliberato l’aumento di capitale, le azioni scambiate sul mercato interno, poi sospese, quotavano 29,99 euro per azione, con scambi irrisori: 6 mila azioni (su 30 milioni teoriche, di cui quasi il 70% in mano alla fondazione) lo scorso novembre, 902 a dicembre. Con un picco di 120 mila azioni scambiate a marzo  (rispetto ad esempio ai 44 mila di febbraio e ai 42 mila di aprile) vale a dire nel mese in cui, il 31 marzo, il cda ha approvato il bilancio 2009.

Un mercato quello della Cassa di risparmio, sostanzialmente illiquido. A fronte di un multiplo prezzo/utili negativo, visto che da un paio d’anni la banca non distribuisce i dividendi alla Fondazione, il multiplo prezzo/patrimonio è stato fissato, al 31 dicembre 2010 – e quindi prima del cataclisma finanziario che quest’estate ha contagiato i titoli di Stato italiani – pari a 1,98 volte (con le azioni a 29 euro), ben più della media (0,93 volte) del paniere di banche comparabili con l’istituto estense, come Banca Carige, Banco Desio, Bper, Banca popolare dell’Etruria, Credem, Banca popolare di Sondrio, Creval. 

Gli schermi di Bloomberg raccontano però una storia diversa: il rapporto tra prezzo e patrimonio di Banca popolare dell’Etruria, il 27 settembre, era pari a 0,16x, quello di Banco Desio 0,56x, Banca popolare di Sondrio 0,93x, Credem 0,53x, Creval 0,29x. Tradotto: il top management della banca è davvero ottimista sull’evolversi della situazione economica italiana, visto che, secondo un report di Citigroup, la media del rapporto tra quotazione del titolo e patrimonio degli istituti italiani è pari a 0,5 volte (UniCredit 0,6x, Intesa Sanpaolo 0,8x, Monte dei Paschi 0,6x, Ubi 0,6x, Bpm 0,3x).

Il valore si giustificherebbe se l’istituto fosse solido. Purtroppo però, sempre stando al prospetto, le sofferenze lorde presentano «un’incidenza pari al 11,97% del totale degli impieghi lordi, mentre le partite anomale lorde si attestano, in totale, al 20,85% degli impieghi lordi», Carife ha inoltre chiuso il 2010 con una perdita netta di 61,6 milioni di euro nel 2010. Numeri che hanno portato l’agenzia di rating Moody’s, il 3 maggio scorso, a porre sotto revisione la banca per un possibile declassamento (pre-aumento il coefficiente di patrimonializzazione Tier 1 si è attestato al 5,11%, quello di Banca Etruria a fine 210 era a 7,9%, le nuove regole di Basilea impongono almeno il 6%). 

A Ferrara, Palazzo Crema è sempre stato il punto di equilibrio tra il potere politico, pendente a sinistra, e quello economico, legato alla destra. Una lottizzazione di incarichi e sportelli che ha funzionato fino a quando il territorio ha offerto la sua linfa vitale alla bisogna. Oggi, il sistema cooperativo si è disgregato, e quello industriale non è mai riuscito a mettere a segno grandi numeri. È dal mondo agricolo, invece, che proviene gran parte dei consiglieri e degli uomini forti della banca. Alcuni dei quali, come il vicedirettore generale Giuseppe Ucci, godrebbero del forte appoggio della Curia. 

A cavallo del duemila, il top management aveva intrapreso una politica di acquisizioni volta a consolidare la presenza dell’istituto come “banca locale”, assumendo il controllo di Banca di Treviso, Credito Veronese, Banca popolare di Roma, e Banca Modenese. Quest’ultima, fondata da Gianpiero Samorì – il rivale di Piero Ferrari ai vertici della Bper – con un gruppo di imprenditori locali, e rivenduta a peso d’oro (fonti interpellate da Linkiesta stimano una cifra intorno ai 150 milioni di euro) nel 2006. Alcune operazioni immobiliari hanno poi aggravato le perdite della banca estense. Sempre sul prospetto, si legge che le esposizioni nei confronti «dei fondi comuni di investimento immobiliare riservati Aster (per euro 34,8 milioni al lordo delle rettifiche di valore) e Calatrava (per euro 6,8 milioni al lordo delle rettifiche di valore), gestiti dalla società Vegagest Immobiliare Sgr».

Esposizioni che pesano sul 25,19% del patrimonio di vigilanza, un quarto. Su due progetti di Vegagest, controllata al 30% da Carife, la magistratura ha aperto un’inchiesta un anno fa. È invece in corso il processo sul crac Coopcostruttori, che ha lasciato un buco da un miliardo di euro, 30 milioni di euro l’esposizione di Carife. Dieci giorni fa, i legali dell’ex direttore generale della banca, Gennaro Murolo, hanno sostenuto che il suo assistito «rifarebbe tutto». E proprio Murolo, dicono a Ferrara, è stato il capro espiatorio di un sistema che lo ha lasciato fare il bello e il cattivo tempo per una decina d’anni.

Dopo la cura imposta da Giuseppe Grassano, manager “risolvi-problemi” vicino a Bankitalia, oggi a guidare la banca è il direttore generale Daniele Forin, un passato da a.d. di Finanza e futuro, la rete dei promotori di Deutsche Bank. Un compito non facile, quando uno proviene da tutt’altri lidi. Da un anno, tutte le energie della banca sono state dedicate al buon esito dell’aumento, spesso mettendo a dura prova il reparto commerciale della banca, che talvolta ha adottato metodi non troppo ortodossi per convincere i clienti sulla bontà dell’operazione. Come quando, nel tentativo di invogliare l’utility friulana Bluenergy, allo sportello cominciarono a sponsorizzare i loro contratti di fornitura, rischiando l’incidente diplomatico con Maurizio Chiarini, ferrarese amministratore delegato della rivale Hera, la cui moglie, ironia della sorte, lavora proprio in Carife.

Nella città europea a più alto tasso di biciclette
assieme ad Amsterdam e Copenhagen, qualcuno ha però deciso di non pedalare più in tandem con la banca. Giulio Barbieri, imprenditore con la passione dello sport e della politica – è stato anche candidato sindaco alla guida di una lista civica – in una lettera pubblicata lo scorso luglio dal sito Estense.com, ha raccontato le mosse della dirigenza di Carife per convincerlo a sottoscrivere l’aumento di capitale, in cambio di un posto in Fondazione e un allargamento delle fideiussioni. «Oltre a me, ci hanno provato con moltissimi altri imprenditori sul territorio», dice Barbieri a Linkiesta, osservando: «Da tempo gira voce in città di un’acquisizione della banca, a mio avviso l’unica salvezza per evitare il commissariamento». 

I candidati di cui si mormora vengono tutti dal vicino Veneto, e rispondono ai nomi di Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca. La prima, per il passato di Giuseppe Grassano, ex direttore generale dell’istituto berico sostituito nel 2000 da Divo Gronchi, dimissionario proprio in questi giorni, e i suoi ottimi rapporti con gli Amenduni. La seconda, per via dell’attivismo di Vincenzo Consoli, a cui piace accaparrarsi nobili decadute come la Bim, ex salotto buono torinese.
Un’altra realtà del nordest, come emerge dal prospetto, avrebbe garantito l’eventuale inoptato: «L’impegno di sottoscrizione assunto da Finanziaria Internazionale Securitisation Group S.p.A. ha ad oggetto massime n. 1.700.016 Azioni, per un controvalore totale massimo complessivo di Euro 35.700.336».

Finanziaria Internazionale, fondata da Enrico Marchi – presidente di Save, società che gestisce l’aeroporto Marco Polo di Venezia – e da Andrea de Vido, è tra i principali operatori nel settore delle cartolarizzazioni in Italia. Per questo, l’investimento in Carife sembra eccentrico rispetto al core business di FinInt. «Ci conosciamo da anni, abbiamo effettuato molte operazioni di cartolarizzazione per conto loro, abbiamo grande stima del direttore generale e crediamo abbia la visione giusta per rilanciare la banca», spiega a Linkiesta Andrea Perin, responsabile della finanza strutturata di FinInt, che segue personalmente la partita. «Penso che Carife abbia pagato scelte sbagliate, ma con l’aumento di capitale sarà in grado di camminare sulle sue gambe», continua Perin, che osserva: «Il prezzo di 21 euro per azione è alto? Credo che nei prossimi anni la banca lo supererà», conclude ottimisticamente. In caso contrario, lo sforzo richiesto veementemente ai propri azionisti e correntisti sarà risultato inutile. 

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