Tre anni dopo, la paura rimane. Neanche a farlo apposta, nell’anniversario del fallimento di Lehman Brothers, cinque banche centrali (Bce, Bank of England, Federal Reserve, Bank of Japan e Swiss National Bank) hanno annunciato misure straordinarie per fornire liquidità in dollari alle banche europee fino alla fine dell’anno, al tasso Bce dell’1,5 per cento. Come si legge sul comunicato dell’istituto centrale di Francoforte, le date delle operazioni saranno il 12 ottobre, 9 novembre e 7 dicembre, e si aggiungono al consueto finanziamento settimanale in valuta statunitense introdotto dalla Bce nel maggio 2010.
Ieri notte, due banche sono ritornate a bussare agli sportelli Bce, prelevando 575 milioni di dollari a un tasso dell’1,1%, rispetto allo 0,3-0,5% sul mercato. In assoluto, non si tratta di una grossa cifra, ma è la seconda volta – la prima era stata lo scorso 17 agosto, per un ammontare di 500 milioni di dollari – che Francoforte apre i rubinetti fornendo dollari agli istituti europei. Un segnale delle difficoltà che la crisi della finanza pubblica comunitaria ha traslato sul mercato americano, che teme il contagio.
Segnale avallato dal differenziale tra il tasso euribor, al quale gli istituti si prestano i soldi a vicenda, e l’overnight, cioè gli interessi pagati dalle banche sui piccoli prestiti giornalieri – indicatore fondamentale per capire il rischio percepito sul mercato monetario – lunedì scorso è salito a 85 punti base, il livello più elevato dal marzo 2009. «Non siamo ancora ai livelli del 2008, ma molto vicini. Non credo che questa situazione rifletta una domanda non soddisfatta di dollari come nel 2008. Gli istituti non stanno affrontando tassi Libor esagerati e non stanno ancora pagando esageratamente per rifinanziarsi in dollari. Il senso di panico è lo stesso, ma la situazione appare più ordinata rispetto al 2008», ha detto alla Reuters Simon Wilson, vicedirettore della sala trading di Royal Bank of Scotland.
Ovviamente, i nomi degli istituti che si sono attaccati alla bombola d’ossigeno europea sono top secret, ma l’intervento congiunto di ben cinque banche centrali da un’idea della preoccupazione “sistemica” di un’eventuale nuova crisi di liquidità. Gli indiziati numero uno sono Société Générale e Credit Agricole, le due banche declassate di un “notch” (cioè di un “gradino”, da Aa2 ad Aa3 con outlook negativo e Credit Agricol da Aa1 ad Aa2, mettendolo sotto revisione) martedì notte dall’agenzia di rating Moody’s. La quale ha peraltro confermato il giudizio Aa2 su Bnp Paribas, mettendolo però sotto osservazione per un possibile abbassamento. Una mossa che ha spinto il colosso transalpino ad annunciare, ieri, un piano di dismissioni di attività rischiose dal valore di 70 miliardi di euro.
A pesare sui bilanci dei principali istituti francesi non è soltanto l’esposizione ai bond ellenici, pari a 3,5 miliardi di euro per Bnp Paribas e 2,7 per SocGen, ma l’abbandono, come hanno riconosciuto entrambe, dei fondi monetari americani, tradizionale bacino d’approvvigionamento di liquidità per gli intermediari finanziari. Un problema non di poco conto per SocGen, che, proprio come Lehman Brothers prima della sua disintegrazione, svolge la funzione di banca depositaria, fungendo cioè da stanza di compensazione per le società di gestione del risparmio. Un ruolo di centrale importanza, difficilissimo da compiere qualora si blocchino i canali di rifinanziamento.
Come prevedibile, all’annuncio della Bce, tutti i titoli del comparto bancario europeo sono stati protagonisti di rialzi in doppia cifra. Intorno alle 15.30, Intesa Sanpaolo guadagnava l’8,7%, mentre UniCredit, poi sospesa per eccesso di rialzo, saliva il 6,9 per cento. Ancora meglio le banche transalpine, tutte in doppia cifra, con Bnp Paribas a +22% a poco più di un’ora dalla chiusura delle contrattazioni.
Le decisioni adottate dai banchieri centrali più importanti al mondo non sono l’unico campanello d’allarme suonato nel terzo anniversario di Lehman. Stanotte a Londra è stato arrestato Kweku Adoboli, 31enne trader di Ubs ritenuto responsabile di perdite per 1,3 miliardi di sterline (2 miliardi di euro). Dal Financial Times, che ha pubblicato il profilo di Adoboli su Linkedin, emerge però un particolare interessante: il trader sedeva al Delta One, divisione che si occupa di replicare in derivati l’andamento degli Etf, per mantenere il loro valore allineato con il sottostante. La stessa posizione di Jerome Kerviel, condannato a tre anni di reclusione, lo scorso ottobre, per operazioni sui derivati non autorizzate che hanno causato perdite per 4,9 miliardi di euro.
La vicenda non ha solo un risvolto finanziario. Due giorni fa, nelle sue raccomandazioni finali, l’Independent banking comittee – che per conto del governo britannico si sta occupando di approntare una riforma di stabilizzazione del settore – è tornato a rimarcare l’urgenza di separare l’attività retail e quella d’investimento, suscitando le critiche del mondo finanziario londinese, che ha calcolato costi aggiuntivi per le banche nell’ordine di 7 miliardi di sterline. In questo senso, la maxi perdita di Ubs potrebbe diventare un assist non da poco ai sostenitori della restaurazione delle norme spazzate via dalla deregulation del 1986. In ogni caso, le indicazioni del comitato guidato da Sir John Vikers non saranno operative prima del 2013. Sperando che, per allora, la liquidità denominata in dollari garantita dagli istituti centrali di tutto il mondo sia servita ad allontanare per sempre l’ombra di Lehman.