Banda larga, i soldi ci sono, la voglia no

Banda larga, i soldi ci sono, la voglia no

Una presentazione in power point e un miliardo di euro in meno rispetto alle previsioni. È quanto rimane del piano Romani per portare il web veloce a quei tre milioni di italiani che per navigare devono ancora attaccare il doppino telefonico al computer. Oggi, all’undicesima giornata d’asta delle frequenze della telefonia mobile di quarta generazione (4G)  – ieri i rilanci hanno superato i 3,2 miliardi di euro, 100 milioni in più rispetto alle previsioni del ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani – non è ancora chiara la destinazione delle eccedenze rispetto alla base d’asta di 2,4 miliardi di euro, già iscritta a bilancio dal dicastero di via Veneto attraverso la legge di Stabilità 2011. L’Agcom, l’autorità di vigilanza del settore, è intervenuta sul tema venerdì scorso, con una segnalazione a governo e parlamento riguardante la cancellazione della Robin Tax (Ires dal 6,5 al 10,5%) per le società del comparto, auspicando «una più precisa e mirata finalizzazione di parte dei proventi di tale procedura a evidenza pubblica destinando una quota significativa degli introiti eccedenti i 2,4 miliardi di euro a misure di sostegno per la larga banda e le reti di nuova generazione».

Sicuramente, si sa che il 10% di quei 2,4 miliardi, 240 milioni di euro, andrà a sostenere le televisioni locali “penalizzate” dalla liberazione forzata delle frequenze nel passaggio al digitale terrestre. Una sorta di indennizzo per sostenere le spese di adeguamento tecnologico delle piccole televisioni, riunite nella Frt, la battagliera associazione che rivendica per sé, stando a quanto previsto dalla legge 220 del 2010, «il 50% delle maggiori entrate riassegnate nello stesso anno al ministero dello Sviluppo economico per misure di sostegno al settore, da definire con apposito decreto del ministro dello Sviluppo economico, di concerto con il ministro dell’Economia e delle finanze». Soltanto per decreto, infatti, sarà possibile circoscrivere quale settore Romani intenda sostenere. Alcuni esperti, interpellati da Linkiesta, si aspettano che l’asta arriverà a 3,5 miliardi di euro, per 1,1 miliardi da suddividere equamente tra emittenza locale e banda larga. 

Lanciato tre anni fa assieme a Renato Brunetta, quando era ancora sottosegretario del ministro Tremonti, il piano Romani per la banda larga prevedeva 1,47 miliardi di euro d’investimenti per raggiungere il 95% della popolazione sul territorio nazionale con una connessione a 20 megabit al secondo. Di questi, 800 milioni di euro erano già stati stanziati dall’allora ministro delle Comunicazioni, Paolo Gentiloni, che per primo si lamentò, nel 2009, della loro evaporazione. Nonostante i reiterati annunci e spostamenti in avanti dell’obiettivo previsto dal ministero, andando a spulciare le delibere di chi ha l’ultima parola su quanti soldi allocare, cioè il Cipe, si giunge a un’amara conclusione: nessuna traccia dei fondi per lo sviluppo del web veloce. Anzi, nella seduta del 27 novembre 2010, gli 800 milioni di euro di cui sopra sono stati addirittura ridotti della metà, 400 milioni.

Nel suo discorso inaugurale all’ultima Fiera del Levante, il ministro per i Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto, ha dichiarato che nell’ultima delibera Cipe, che attua il primo capitolo del Piano per il Sud (e finalmente sblocca i Fondi europei per le aree sottosviluppate), «prevede, inoltre, nuove assegnazioni per 5,8 miliardi di euro a favore di 128 infrastrutture di rilievo interregionale e regionale, riguardanti non soltanto strade e ferrovie, ma anche schemi idrici, porti e interporti, aree d’insediamento produttivo, banda larga». Anche in questo caso, è presto per capire quale sarà la percentuale dei 6 miliardi sarà destinata a internet.

La società che si occupa della gestione operativa del Piano per la Banda larga è Infratel, costituita dal dicastero guidato da Romani con Invitalia, l’agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti. Contattata telefonicamente, Infratel ha fatto sapere che l’attuale dotazione finanziaria per realizzare gli investimenti programmati è pari ai 400 milioni, sbloccati dalla delibera Cipe del novembre 2010. Soldi europei che dovrebbero, dicono da Infratel, garantire la copertura degli interventi in 18 Regioni, da qui al 2013. 

Proprio Infratel, a inizio giugno, era stata tirata in ballo da Franco Bernabé, presidente di Telecom, irritato dalle ingerenze (a suo giudizio) di Romani nella costituzione della newco pubblico-privata Infraco, creata lo scorso novembre per gestire la rete Ngn (Next generation network) in fibra ottica da 100 mega al secondo – previste dall’Agenda digitale europea 2020 – utilizzando la vecchie linee di rame dell’ex Sip. Un progetto che stenta a decollare, reso ulteriormente difficoltoso dalla delibera Agcom 301/11, che di fatto, nel quadro delle nuove regole per la Ngn, vieterebbe agli altri operatori l’affitto dell’ultimo miglio della rete Telecom, il cosiddetto unbundling, costringendoli ad affrontare costi d’accesso maggiori per l’accesso alla rete già esistente. Una situazione che ha spinto gli altri operatori telefonici a presentare un ricorso presso la Commissione Europea. 

Mentre la gara per il 4G è in corso, alcune compagnie, come Wind e H3G, hanno già iscritto sul bilancio 2010 l’allungamento delle concessioni Agcom al 2029 per l’Umts, ovvero lo standard 3G. Una misura approvata dall’Authority lo scorso maggio, poco dopo l’approvazione dei conti degli operatori telefonici, che generalmente si chiudono tra marzo e aprile. Secondo Stefano Quintarelli, tra i maggiori esperti italiani di infrastrutture di rete, ciò darebbe alle compagnie telefoniche una maggiore certezza sugli investimenti di lungo periodo, consentendogli di affrontare con maggiore serenità l’asta attualmente in corso di svolgimento per le frequenze, un’asta assai pregiata nel secondo Paese al mondo per diffusione di cellulari e smartphone dopo la Corea del Sud. Un piccolo giallo, tuttavia, permane: nei conti del 2010, H3G ha iscritto a bilancio il valore (312 milioni di euro) ma non l’offerta minima, (155,8 milioni di euro), di due blocchi su 5 da 1.800 megahertz in asta in questi giorni, «utilizzabili per trasmissioni in tecnologia Umts», come si legge a pag. 21 del bilancio. Si tratta quindi di una frequenza 4G ma utilizzata per il 3G. Un aspetto sul quale le bocche del gruppo guidato da Vincenzo Novari saranno cucite fino alla fine dell’asta. 

L’unica certezza, per ora, è che il governo non ha voluto istituire un’asta per le frequenze televisive liberate dalla migrazione al digitale terrestre, favorendo un settore il cui fatturato aggregato è un ventesimo rispetto a quello delle telecomunicazioni. Una mossa poco lungimirante. È tutto da dimostrare, infatti, che quei tre milioni di navigatori con il doppino telefonico preferiscano sedersi in divano e guardare la tv.  

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