Nel paese c’era un vuoto politico, e un’aria carica di tensioni e potenzialità. E un uomo fondò un partito, e si mise in mezzo a quel vuoto da protagonista. Quell’uomo si chiama Umberto Bossi, il suo partito è la Lega Nord. Leggere oggi, in occasione dei Settant‘anni del leader indiscutibile della Lega Nord, il libro di Giuseppe Baiocchi sulla “Storia di uno che (a modo suo) ha fatto la storia”, dedicato ovviamente alla vita di Bossi, è una bella occasione per riflettere sulla Seconda Repubblica, sul suo leader più longevo e incrollabile, e su ciò che poteva essere e non è stato.
Bossi – già – non è sempre stato quel che vediamo oggi. Oggi è un settantenne dalla salute molto fragile, che replica se stesso in una commedia dell’assurdo. Si fa fatica fatica a ricordarlo in questoi giorni che conoscono solo il presente, ma Bossi è stato altro, tutt’altro. Baiocchi obbliga a confrontare l’oggi decadente del Senatore con il passato di uno straordinario successo politico, che solo l’esistenza sulla scena di Silvio Berlusconi può far sembrare quasi “normale”.
Già, Bossi era uno che sapeva fare politica da maestro, sentiva perfettamente gli umori di un pezzo di paese – del più ricco, produttivo, tassato -, ed era rapidissimo nell’annusare ed imparare, e nel fare “sintesi”.
Senatore lo diventa nell’87, e la biografia di Baiocchi ci fa sentire e capire bene che in quel primo quiquennio romano, in solitaria e senza alcuna responsabilità, assorbe «Roma ladrona» come una spugna. Ne conosce i riti di Palazzo, ne apprende i linguaggi, i pettegolezzi, i regolamenti scritti e non.Tutto gli servirà: “del maiale non si butta via niente”, come si dice dalle nostre parti. È in quegli anni che diventa il custode dei segreti del Palazzo Romano e di un mondo – lascia intendere Baiocchi – che di fatto diventa il suo, mostrando una volta di più la millenaria capacità di Roma di metabolizzare e assorbire ogni forma di protesta e rivolta, per accomodarla a più miti consigli.
Il libro di Baiocchi è la cavalcata affettuosa di un giornalista lombardo doc – che de La Padania è stato anche direttore resposnabile – attraverso la vita del leader, i suoi sbalzi, i suoi cambi di direzione, le letture che l’hanno fatto innamorare dell’autonomismo (inimmaginabili solo per chi si fidi dell’immagine stereotipa), la sua vita disordinata. È un libro che, letto alla fine di questo ciclo politico, riporta al punto centrato dalla prefazione di un grande intellettuale come Giuseppe De Rita.
Il fondatore del Censis racconta in apertura di libro che una volta, c’era ancora la Prima Repubblica agonizzante, Bossi gli disse: “Lei ha scoperto l’autonomismo economico, io quello politico, possiamo lavorare insieme”. La cosa non si fece, specifica De Rita, ma riconosce a Bossi la capacità di aver individuato e riempito un vuoto politico che stava diventando esplosivo. È lo stesso Baiocchi a ricostruire la ricetta: la Lega era già un partito di massa quando i partiti di massa del “vecchio” arco costituzionale stavano crollando. Vent’anni dopo, col vecchio Senatùr che festeggia i suoi settant’anni, un nuovo vuoto (o è quello vecchio?) attraversa la politica italiana, e nuove (e vecchie) tensioni agitano il paese e creano qualche preoccupazione. Le tensioni nord-sud e gli squilibri ereditati non sono certo risolte, nè servirà il federalismo zoppo che (forse) andrà a regime in un decennio.
Ma oggi, nel giorno del suo settantesimo compleanno e freschi della lettura del bel libro di Baiocchi, una domanda ci sembra giusta e perfino doversoa: come sta davvero Umberto Bossi? Nelle redazioni, nelle stanze della politica, perfino nelle istituzioni finanziarie, è quasi “scienza comune”: il Senatore non è più lui da un pezzo. Qualcuno alzerà le spalle, qualcuno dirà “sai che scopertà”, qualcuno negherà recisamente. A noi la domanda, banalmente, la suggerisce quel tanto di senso civico che non abbiamo ancora perso nella tentazione (mortale) dei linguaggi autoreferenziali propri del mestiere. È uno dei politici più potenti d’italia, anche da lui dipende il prossimo futuro di questo governo e in definitiva di questo paese e del movimento leghista. Sapere se c’è o non c’è con la testa, sapere se l’impressione di assoluta inaffidabilità che trasmette è fondata, è un interesse nazionale di cui sarebbe ora di farsi definitivamente carico. Al di là degli stanchi riti con le ampolle e degli improbabili “cerchi magici” fatti da figli e famigli.