Una delle cause che spingono le Pmi verso l’insolvenza irreversibile è che il sistema bancario non ha lucidità e umiltà per cambiare alcuni meccanismi disfunzionali a cui si affida nella gestione del credito problematico. Le altre cause sono tutte nel campo dell’impresa: errori gestionali, mancanza di cruscotti, ritardi nel riconoscere e nel contrastare i sintomi della crisi. Il conto salato pagato da imprese e banche in questi anni di crisi lascerà un insegnamento, anche alle future generazioni di imprenditori. Ma quando si tratta di credito e di rapporto tra banche e imprese in crisi occorre agire adesso, per evitare altri danni.
Sono numerosi i casi recenti di piccole e medie imprese in difficoltà che mostrano come il comportamento delle banche, apparentemente ‘normale’ nella sua logica di contenimento del rischio, sia in ultima analisi autolesionistico e privo di una visione strategica nel combinare gestione del rischio e impatto sul bilancio. Per giustificare un’affermazione così controversa mi affido al caso ipotetico di un’impresa con i tipici sintomi di crisi: calo o stagnazione del fatturato, margini ridotti, perdita di bilancio, debiti elevati rispetto al patrimonio, livello di insoluti in crescita, 7 o 8 banche con affidamenti. Un caso molto frequente. Con questo profilo l’impresa è o dovrebbe essere sottoposta a stretta sorveglianza da parte di tutte le otto banche, per effetto del suo rating non brillante e in peggioramento.
La linea gialla
Immaginate che esista una linea gialla invisibile che separa il comportamento delle banche in due fasi distinte. Varcare la linea gialla è normalmente sinonimo di pericolo. Nel caso delle imprese in crisi, però, molte volte è vantaggioso.
Nella prima fase, la maggior parte delle banche adotta individualmente una linea di contenimento o riduzione del rischio, che si traduce in un disimpegno graduale, con riduzioni unilaterali o concordate di affidamenti (leggi anche “La banca non fa più credito, allarme rosso fra le imprese). Le banche marginali tentano solitamente un’uscita definitiva. La somma delle decisioni individuali e i rimborsi delle rate di finanziamenti-mutui sottrae liquidità all’azienda mese dopo mese. Mentre l’impresa si avvicina alla linea gialla ciascuna banca ritiene di avere agito in modo corretto e intelligente rispetto alle istruzioni creditizie, ma raramente si pone domande sull’effetto cumulativo.
La riduzione marcata dei fidi accordati, il diniego sistematico posto verso richieste di aumento dei fidi porta velocemente (3-4 mesi) l’impresa in situazione di non potere sostenere i fabbisogni di circolante, se non sacrificando i fornitori. In molti casi i fornitori reagiscono e bloccano le consegne se non vedono pagamenti in contanti, l’impresa si vede costretta a ridurre la produzione per mancanza di liquidità e tracolla. In questa fase, lo ricordo, le banche si muovono separatamente ciascuna con la segreta ambizione di essere più veloci nella ritirata delle altre. E se per caso l’imprenditore avesse capitali da immettere in azienda, non lo farebbe mai solo per soddisfare richieste di rimborso delle banche. Si ferma e usa i capitali nella fase 2.
Fonte: Osservatorio trimestrale sulla crisi d’impresa, Cerved – settembre 2011
Messa alle corde l’impresa non ha scelta: varca la linea gialla. Entrare nella fase 2 significa convocare tutte le 8 banche, spiegare che i soldi sono finiti senza troppa vergogna perché basta fare la conta dei fidi ritirati per capire il motivo e dividere le colpe.
A questo punto esistono solo due strade per assicurare continuità all’impresa: portare i libri in tribunale con una procedura di concordato preventivo sgravandosi dei debiti o invitare le banche a sedersi e discutere la ristrutturazione del debito. Il rapporto di forza si è completamente ribaltato a favore dell’impresa. Nel primo caso (procedura fallimentare) il danno alle banche sul credito è certo e molto grave (anche 90% in assenza di garanzie), nel secondo (ristrutturazione) il danno limitato ma rischi di insuccesso del piano.
Solo varcando la linea gialla l’impresa ottiene finalmente quell’attenzione negata dal sistema bancario nella fase 1. Le banche ora devono agire in gruppo, ascoltare il piano di ristrutturazione dell’imprenditore, valutarlo sotto la minaccia di un concordato che trasformerebbe un credito in bonis (su cui ci sono modesti accantonamenti) in una costosa sofferenza (90% di accantonamento). A prescindere dall’esito della partita, dai rapporti di forza e dalla validità del piano nella testa dell’imprenditore, si capisce che questo percorso è assurdo.
Invece di sedersi allo stesso tavolo PRIMA dell’insolvenza, banche e imprese si trovano a ragionare seriamente solo dopo che la crisi finanziaria è esplosa, in un contesto in cui aleggiano rischi penali e spettri di curatori e magistrati. Pur con molti distinguo questa è la situazione del polo ospedaliero San Raffaele, che andava affrontata due anni fa almeno tutti insieme: azienda, banche e fornitori.
La fase di ‘contenimento’ del rischio basata su antiche regole impartite nelle direzioni crediti è in realtà l’anticamera di incagli e sofferenze quasi certe, le statistiche non mentono: questo sistema ha fallito e continua a fallire nel 2011, quindi va rivisto. Le banche stanno facendo un autogol clamoroso nel non affrontare un vero progetto di ristrutturazione delle Pmi quando ancora fattibile. L’anonimato della Centrale Rischi è assurdo da questo punto di vista nel rallentare la formazione di un team di salvataggio. Le banche sbagliano a non consultarsi in tempo di fronte a un malato curabile, per ritrovarsi invece a votare l’adesione a un concordato davanti a un giudice fallimentare.
Come uscirne?
I processi di gestione del credito problematico vanno rivisti, le attività di cura e prevenzione vanno potenziate con personale specializzato nel portare in salvo quelle imprese che in forza di dati oggettivi (piani, prodotti, clienti) hanno reali possibilità di superare la crisi e ripartire. Se i piani sono inadeguati le banche avranno pochi rimorsi nel decretare la fine del loro supporto all’imprenditore. Oggi non va così per le piccole imprese e un recente articolo del Sole 24 Ore ha fornito un esempio magari eccessivo ma non certo raro.
Il salvataggio delle Pmi è uno dei temi che Confindustria, Abi e ministero per lo Sviluppo Economico devono mettere in agenda per fermare la costosa moria di imprese piccole e medie. Ricordo che le sofferenze del sistema sono arrivate a quasi 100 miliardi di euro e che rappresentano uno dei motivi di possibile declassamento delle banche da parte delle agenzie di rating. Tocca quindi alle banche fare un passo avanti e trovare approcci e soluzioni, lo Stato può solo fornire strumenti sussidiari per agevolare le ristrutturazioni. Confindustria può garantire da parte sua protocolli seri a cui gli imprenditori si devono attenere per ottenere aiuto dalle banche. È ancora un terreno accidentato e privo di regole sul quale innovare e migliorare è possibile nell’interesse di tutti, tranne forse quello degli studi legali che hanno trovato in questi anni un nuovo e profittevole business.
La posta in palio, visto che si parla spesso di crescita del Pil, è elevata. I costi della crisi che vanno ridotti (impossibile eliminarli) sono in alcuni numeri: 40 miliardi di debiti verso fornitori non saldati causa fallimento, oltre 200 miliardi di crediti tra incagli e sofferenze nelle banche, 648 milioni di ore di cassa integrazione nei primi otto mesi. Penso che si debba spendere qualche goccia di sudore per provarci.
*Fabio Bolognini è amministratore delegato Linker srl. È stato vicedirettore generale di Unicredit Banca d’Impresa e responsabile Piccole Imprese per Banca Intesa.