«Il dibattito sulla Fiat è spesso focalizzato su questioni che riguardano il costo del lavoro. Il costo del lavoro, tuttavia, pesa per un valore intorno al 7% del costo industriale totale. Le motivazioni che condizionano le scelte di localizzazione produttiva sono spesso altre». Lo sostiene Francesco Zirpoli, docente di Economia e gestione aziendale all’Università Ca’ Foscari di Venezia e co-autore de “L’auto dopo la crisi” (Brioschi Editore). In questi giorni, al Lingotto, è riunito il top management, e tra le ipotesi in discussione c’è lo spostamento della produzione dei suv a marchio Jeep e Alfa Romeo negli Usa, un anno e mezzo dopo l’annuncio sullo spostamento in Serbia della produzione della monovolume L0. Zirpoli legge la minaccia di chiudere il centro di Mirafiori come un preallarme sul possibile spostamento del quartier generale Fiat fuori dall’Italia. «Per alcuni modelli di bassa gamma, può capitare che il car maker realizzi dei margini solo se alla vendita del veicolo si associa la scelta di un optional come, ad esempio, la vernice metallizzata».
In questi al Lingotto si decide se i Suv marchio Jeep e Alfa Romeo saranno prodotti in Usa, invece che a Mirafiori, nonostante gli accordi con la maggioranza dei sindacati prevedessero diversamente. La monovolume L0 viene realizzata in Serbia. E di Fabbrica Italia non si parla più. Siamo prima o dopo la crisi?
Ritengo che il dibattito sia stato sostanzialmente monopolizzato da questioni che riguardano il lavoro e il costo del lavoro. Benchè Fiat abbia incontrato in Italia delle difficoltà, ci sono numerose ricerche che dimostrano come il lavoro non sia un fattore determinante nella localizzazione degli investimenti produttivi, incidendo solo per un valore intorno al 7% del costo industriale totale. Per molti motivi è auspicabile che la produzione di auto rimanga in Italia. Quanto alle prospettiva, non esiste al mondo nessun car maker che vicino al suo maggiore centro ingegneristico non abbia anche un centro produttivo. Quindi, se Fiat pensa di mantenere il cuore tecnologico al Lingotto non mette in discussione Mirafiori. Nell’automotive è raro che i carmaker esternalizzino la produzione di modelli di massa, anche se la delocalizzazione è una pratica diffusa e necessaria. In questo senso nessun produttore auto si comporta come Apple che disegna i prodotti in California e li fa produrre e assemblare da un contract manufacturer in Cina. Nel settore auto delocalizzazione e esternalizzazione insieme si verificano solo nel caso della produzione di modelli di nicchia o con una scarsa complessità produttiva.
Da tempo il top management parla di una reinternalizzazione di tutti i servizi finanziari in casa Fiat, dal factoring al leasing, ma non si conoscono ancora le tempistiche. Quali margini di guadagno portano questi servizi?
Nei servizi finanziari spesso si concentra il margine di guadagno più elevato per i car maker, soprattutto quando si vendono modelli di bassa gamma. La redditività passa attraverso il finanziamento o la vendita di optional come la vernice metallizzata, uno studio recente dice proprio questo. Nel campo della progettazione, da metà anni ’80 alla fine degli anni ’90 la Fiat esternalizzava la progettazione, dopo l’arrivo di Marchionne, invece, c’è stato un fortissimo recupero in termini di competenze di ricerca e sviluppo. La competizione nel settore auto è fortemente condizionata dalle politiche industriali e di incentivo agli investimenti degli Stati. Quasi tutti gli investimenti produttivi, si pensi a Kragujevac, seguono i finanziamenti pubblici, per questo dico che il costo del lavoro è una variabile relativa nell’attuale scenario internazionale, e su questo punto i sindacati e lavoratori possono fare poco. In Italia, tolti i veicoli commerciali, nel 2010 sono state prodotte circa 600mila autovetture, in Germania siamo poco sotto ai 6 milioni. Come si fa a sostenere che il problema è il costo del lavoro?
Lei ha appena pubblicato un libro sull’auto “dopo la crisi”. Come se fosse passata.
È evidente che la crisi si sovrappone a un trend di medio lungo periodo. La crisi del 2008 ha accelerato dei processi già in essere, non ne ha determinati di nuovi. Se si guarda ai trend nelle vendite dell’area europea e nordamericana o al ritardo di alcuni car maker americani su particolari segmenti di mercato, ci si rende conto che la crisi viene da lontano. Ad esempio, benché nel duemila il mercato dei light truck tirava, era chiaro agli addetti ai lavori che alcuni marchi americani erano troppo sbilanciati su questi segmenti. In Asia, invece, c’è un mercato che da anni cresce a due cifre. La crisi ha esacerbato le differenze tra Europa, Usa da un lato e Asia dall’altro. Se si pensa al futuro, basi notare che in India i livelli di motorizzazione ogni 1.000 abitanti corrispondono a quelli della Germania anni ’50.
In Italia, la Fiat ha sempre avuto un ruolo di “pacificatore sociale”, come le tre sorelle di Detroit per il Michigan. Sarà ancora così?
Se si guarda Melfi, in verità è rimasta una cattedrale nel deserto, quell’indotto che si sperava si potesse creare non si è realizzato, si sono trasferiti solo i fornitori di primo e secondo livello che hanno seguito Fiat nell’investimento, ma nessun motore imprenditoriale si è acceso in Basilicata. Bisogna però separare due questioni. Una è se conviene produrre auto in Italia, l’altra è se ci aspettiamo una crescita della produzione in Italia o se c’è il rischio desertificazione industriale. Il dibattito sindacale non è dirimente in questo senso, lo è solo dal punto di vista retorico. Bisogna capire quali sono le condizioni di vantaggio e svantaggio nell’investire con il sistema paese. Ad esempio, non aveva senso produrre auto a Termini Imerese, perché il sistema logistico aveva dei costi tali da rendere la produzione antieconomica, soprattutto per fasce mediobasse. A Pomigliano ha molto più senso, perché gli stabilimenti sono a pochi km dal porto, c’è un’università all’avanguardia, l’Istituto motori del Cnr. Condizioni ideali per produrre e fare innovazione.
Marchionne ha puntato moltissimo sulle relazioni industriali, ma se la centralità dell’auto nei consumi diminuisce sempre di più, quanto è ancora premiante questa politica?
Il Governo dovrebbe proporre una politica industriale di lungo periodo ed aggiornare l’impianto normativo che regola le relazioni industriali, e su questo la Fiom e Marchionne sono concordi. Soprattutto in tempi di crisi e date le condizioni del debito, l’Italia non ha una forte capacità di alimentare gli investimenti attraverso interventi diretti, tuttavia un’idea chiara di come deve favorire lo sviluppo industriale del Paese sarebbe auspicabile e forse sufficiente.
Qual è il paradigma della mobilità del futuro?
Sicuramente bisogna puntare sulla multimodalità, cioè l’idea che esistano mezzi diversi per muoversi su territori urbani diversi. Un classico esempio è il car sharing. È chiaro che questo tipo di mobilità richiede una pianificazione urbana pesante e una gestione che abbia una forte visione delle interdipendenze tra la pianificazione urbana, le infrastrutture per far funzionare i mezzi di mobilità e le attitudini dei cittadini. Se si punta sull’auto elettrica qualsiasi scelta pubblica non può prescindere dallo standard di ricarica delle batterie. Ad esempio, il gruppo Better Place in Israele e in Danimarca ha provato a introdurre un meccanismo basato sulle stazioni di ricambio delle batterie elettriche invece che sulle stazioni di ricarica. La crisi è un’occasione d’oro per sviluppare nuovi modelli di mobilita più razionali. In Italia abbiamo la tecnologia e il know how. Anche in questo caso, tuttavia, mi pare che manchi una visione di lungo periodo del decisore pubblico, che permetta ai privati di orientare gli investimenti.