Il cristiano sa perdonare anche chi disobbedisce alla legge

Il cristiano sa perdonare anche chi disobbedisce alla legge

A volte diciamo “posso perdonare ma non dimenticare”. Invece, il Signore perdona e dimentica: non perché è corto di memoria, ma perché conserva altre memorie più interessanti di noi. Conserva di noi la memoria del suo amore infinito per noi ed è quella memoria che cancella il ricordo delle colpe. Il perdono è il centro della vita cristiana, proprio come nei fuochi di artificio il finale è il grande botto così il perdono è il finale del discorso sulla comunità.

Il perdono non è qualcosa come riparare un vaso cinese che perde di valore perché è stato rotto, ma fa acquistare valore, come aggiustare un buco in un coccio mettendo dentro un diamante: acquista valore quel coccio. E il perdono è il diamante perché è l’essenza di Dio, è l’amore gratuito. Le cose che noi malediciamo nella nostra vita, i casi brutti, quelle cose che ci scocciano in noi e negli altri che ci fan pensare che se non ci fossero tutto andrebbe bene, ecco proprio quelle cose lì sono le più interessanti, sono il luogo dell’esperienza del perdono.

Matteo 18, 21-35
Allora Pietro si avvicinò e gli disse: Signore quante volte dovrò perdonare al mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte? E Gesù gli rispose: Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette. A questo proposito il Regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Incominciati i conti gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. Non avendo, però, costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie e con i figli e con quanto possedeva e saldasse così il debito. Allora quel servo gettatosi a terra lo supplicava: “Signore abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e afferratolo lo soffocava e diceva: “Paga quel che devi.”  Il suo compagno gettatosi a terra lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito”. Ma egli non volle esaudirlo. Andò e lo fece gettare in carcere fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e disse: “Servo malvagio, ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato, non bisognava forse che anche tu avessi pietà del tuo compagno così come io ho avuto pietà di te?” E sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi se non perdonerete di cuore al vostro fratello.

Questa parabola dice che io devo avere con l’altro lo stesso rapporto che il Padre ha con me. Come dice Gesù : “Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi” o come dice Paolo: “Perdonatevi gli uni gli altri, come Cristo ha perdonato noi”. Cioè il modello del nostro comportamento con gli altri, è quello che l’altro in alto ha con noi.

Il principale nemico del perdono è la giustizia. È cosa molto buona che ci sia giustizia nei rapporti sociali ed economici. Nei rapporti personali e anche nei rapporti più estesi bisogna sempre avere un concetto di giustizia un po’ diverso. Cioè c’è una giustizia che è la legalità: e va osservata. C’è, però, una giustizia più profonda che va oltre la legge e trascura la legge. Chi trascura la legge, sbaglia, certo. Ma c’è una giustizia più profonda che è una giustizia eccessiva, è la giustizia che fonda la comunità cristiana, è quella giustizia che si chiama del perdono, che non dà a ciascuno il suo, ma che si sente in debito con ognuno di ciò di cui l’altro manca.

L’atteggiamento di Dio che ci perdona gratuitamente e ristabilisce comunione dove noi l’abbiamo rotta, è il modello del nostro rapporto comunitario. Si può vivere insieme solo dove ci si perdona e questa parabola è tutta un’esortazione al perdono, contrapponendo alla giustizia farisaica dove bisogna far tutto giusto, dove non può uscire l’errore se no sei distrutto, contrapponendo a questa giustizia la nuova giustizia che è la giustizia dei figli, che è quella dei fratelli, la giustizia del perdono.

Allora Pietro si avvicinò e gli disse: “Signore quante volte dovrò perdonare al mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette.

È Pietro che interroga Gesù e Pietro ha nella comunità una preminenza, non perché sia il più bravo, ma perché è quello che ha fatto l’esperienza del perdono. Pietro proprio in quanto pecora smarrita che è stata ritrovata, diventerà pastore.

Non è un modo di dire: si vive del perdono dell’altro, che l’altro ti perdoni di vivere, ti conceda lo spazio. L’altro è sempre un di più per il nostro egoismo. Il perdono è proprio il respiro della vita comunitaria. Il perdono che ricevo è ciò che mi dà la vita, mi fa nascere; il perdono che do è ciò che mi fa crescere e mi fa stare vivo. Il perdono è proprio come l’inspirare e l’espirare, lo ricevo e lo do; se non lo do, smetto di respirare.

La parabola non è tanto sul ricevere il perdono che c’è già, però bisogna prenderne coscienza, quanto sul darlo. Il fatto che tu lo dai è la prova che l’hai ricevuto, l’unica verifica. Nel Padre nostro si dice: Perdona a noi, come noi abbiamo perdonato ai nostri debitori, e ai tempi di Sant’Agostino c’erano persone che a questo punto della preghiera del Padre Nostro saltavano questo pezzo, perché se Dio perdona a noi come noi perdoniamo gli altri, poveri noi! Sant’Agostino dice che non vale saltarlo, bisogna proprio far così. Se io non perdono vuol dire che io non ho accettato il perdono, che non vivo del perdono, non conosco l’amore gratuito del Padre per me e per l’altro che è lo stesso.

A questo proposito il Regno dei cieli è simile a un Re che volle fare i conti con i suoi servi. Incominciati i conti gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti.

Ecco questo Re che fa i conti, questo Re si dirà negli ultimi versetti è il Padre mio celeste. Qui per servi si intende un ministro, perché un debito simile non lo può avere un servo, i suoi servi, i suoi ministri siamo noi.

Diecimila è la cifra più grossa in greco. Il talento è l’unità di misura più grossa delle monete, trentasei chili di materiale prezioso. Quindi per dar l’idea del debito, un talento è seimila giornate lavorative, diecimila talenti sono ottanta milioni di giornate lavorative, cioè duecentomila anni di lavoro. Se si vuol tradurre in altri termini di peso, trentasei chili viene ad essere tremilaseicento quintali, sarebbero trecentosessanta furgoni carichi di materiale prezioso, quindi una colonna di tre o quattro o cinque chilometri, questo è il debito che abbiamo con Dio, ciascuno di noi: cosa gli dobbiamo? Gli devo di esistere, tutto ciò che ho, tutto ciò che sono. Siccome poi gli ho rubato tutto, me lo perdona e gli devo anche il perdono di questo e oltre tutto non mi ha donato solo questo, mi ha donato addirittura se stesso, ben più di diecimila talenti, mi ha donato di essere suo figlio.

Il problema è passare dalla logica del debito a quella del credito: Dio mi ama, quindi sono in credito del suo amore infinito. Ho aperto un credito infinito con Dio di ben più di diecimila talenti. Lui mi è debitore di questo, ha dato la vita per me. Il passaggio dalla logica del debito a quella del credito in questo senso, è il passaggio dalla Legge al Vangelo, cioè dal considerarsi servi in colpa per vivere, espiando tutta la vita dal momento in cui si è nati, alla gioia di essere figli, amati infinitamente da Dio.

Non avendo, però, costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie e con i figli e con quanto possedeva e saldasse così il debito. Allora quel servo gettatosi a terra lo supplicava: “Signore abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”.

Ovviamente non aveva di che restituire. Noi pensiamo sempre di dover ripagare l’amore, di dover restituire, di dover riparare. È un po’ dura. E pensiamo che allora il Signore ci venda, cioè tutta la nostra vita diventa una schiavitù sotto il giudizio di Dio che mi condanna, sotto il giudizio di un Dio che è esigente.

Allora, vista la “mal partita”, ecco questo servo si getta a terra e lo supplica. Abbi pazienza con me. Aver pazienza in greco significa: “essere magnanimo, d’animo grande”. “Ti restituirò ogni cosa”. È un’illusione, noi contiamo sempre sulla pazienza di Dio sperando presto o tardi di riuscire a rimediare i nostri debiti. Però è una perfetta illusione, vivremo sempre in colpa non riuscendo ad estinguere il debito. Noi viviamo sempre necessariamente così fino a quando non vediamo il gesto che fa Lui.

Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito.

Ecco, il padrone ha pietà. La nostra miseria, la nostra insolvenza muove la sua tenerezza, anzi la sua passione per noi, diventa compassione. Pensate a questo povero Dio che sta lì a vederci che vogliamo pagargli il debito. Non c’è nessun debito da pagare, c’è solo da godere di questo enorme dono. Come uno che tutta la vita lavorasse per pagare ai genitori la vita perché è nato. Cosa vuoi pagare? È un dono: vivi. È un debito inestinguibile: se no, è dannazione il vivere, se è così.

Dio è mosso a compassione da questo nostro atteggiamento: è ciò che più lo addolora. Diventerà la Croce questa compassione, anzi il nostro peccato è sentirci in debito così e pensare che Lui sia il Padrone esigente che ci tratta da schiavi, è questo il peccato che sta all’origine di tutti i nostri peccati. Ma questo invece di farlo arrabbiare, lo muove a compassione, gli fa compatire, cioè patire il nostro male. È il mistero pasquale questa compassione. Allora lo lascia andare e gli condona il debito.

Appena uscito quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e afferratolo lo soffocava e diceva: “Paga quel che devi.”

Si è appena parlato della magnanimità del Signore e di quel che ho ricevuto e questo lo sappiamo, lo impariamo quando andiamo in chiesa, quando leggiamo la Scrittura, quando preghiamo nei momenti migliori. Poi appena usciti, ci capita nella vita quotidiana che c’è sempre qualcuno che ha con noi qualche debito. Sono quei debiti normali che riteniamo sempre che gli altri abbiano nei nostri confronti, gli altri sono sempre debitori di qualcosa.

Allora invece della magnanimità del Signore che ci ha condonato diecimila talenti, noi con l’altro, qui, applichiamo un’altra categoria, quella della giustizia. Per me ho invocato quella della misericordia, per l’altro, invece, quella del rigore. Il problema è come trasferire con i fratelli il rapporto che il Padre ha con noi, è l’unico problema della vita, è l’unico modo di poter fare comunità, per poter stare insieme. La magnanimità che Lui ha avuto con me cerco di viverla con l’altro e come faccio ad avere questa magnanimità?

Basta che mi ricordi di quanto sono stato perdonato. Questo suscita in me innanzittutto una certa tolleranza, poi qualcosa di più una magnanimità, suscita ancora qualcosa di più: la stessa compassione che il Padre ha per me, mi ama come figlio, è la stessa che ho io per l’altro, come fratello, come suo figlio. Allora il debito che il fratello ha con me, il torto che ha con me, è quel luogo che mi rende simile a Dio, so perdonare.

Se nessun fratello avesse dei torti nei miei confronti, io non saprei mai cosa voglia dire l’amore gratuito da esercitare. Mentre proprio i debiti che abbiamo gli uni verso gli altri ci permettono a chi è perdonato di sperimentare che Dio perdona, a chi perdona di diventare come Dio che perdona. Capite, allora, come sono importanti nella vita comunitaria, nelle famiglie i litigi, i disaccordi. Cioè, il male esce proprio dove si sta insieme ed è lì che il male viene vinto dall’amore e dal perdono e diventa qualcosa di divino. 

Questi cento danari che ci dobbiamo l’un l’altro diventano il luogo quotidiano dove noi guadagniamo in fondo molto più di diecimila talenti, diventiamo come Dio. Perdonare è miracolo più grande che risuscitare un morto, perché perdonando faccio vivere l’altro come figlio di Dio e nasco io come uguale al Padre che sa amare a perdonare.

Il suo compagno gettatosi a terra lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito”.

Fa la stessa preghiera che lui aveva fatto al Signore. È interessante con questa preghiera lo esorta ad agire come il Signore. Infatti il fratello si aspetta da noi che agiamo come il Signore. E ognuno di noi rappresenta per l’altro il Signore.

Uno avrà l’immagine del Padre che gli trasmettiamo noi fratelli, quindi è importantissimo il nostro atteggiamento con l’altro. Se noi lo mettiamo in prigione, l’altro resta in prigione, nella logica del debito. Se noi lo liberiamo, l’altro resta libero, soprattutto nell’educazione, ma anche in tutte le relazioni.

Ma egli non volle esaudirlo. Andò e lo fece gettare in carcere fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto.

Se osserviamo con una certa obiettività la scena, vediamo che uno, al quale hanno regalato diecimila talenti d’oro, mette poi un altro in prigione per cento danari, e diciamo proprio che questa cosa ci offende.

È bello questo sentimento perché vuol dire che abbiamo una certa magnanimità. Solo che quando la cosa mi tocca più da vicino, perché uno ha un debito con me di tre mensilità o anche di pochi minuti perché mi ha scocciato, scatta un altro meccanismo spontaneo di cui non mi accorgo: “Paga l’errore che hai fatto”. Quando non si è coinvolti è facilissimo: io son pazientissimo quando non tocca a me. Quando mi tocca in prima persona il ragionamento cambia subito: “Dammi quel che mi spetta”. Il problema è cambiare proprio su questo punto.

Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e disse: “Servo malvagio, ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato, non bisognava forse che anche tu avessi pietà del tuo compagno così come io ho avuto pietà di te?”

Ecco questa prima parte del discorso è subito immediatamente comprensibile, è una cosa di buon senso. Il Signore stesso richiama il perdono che costui ha ricevuto e gli dice: “Così dovresti fare anche tu con l’altro”, è la regola di comportamento. Quello che non comprendiamo bene e che è importante comprendere sono i versetti che seguono. 

E sdegnato il padrone lo diede in mano agli aguzzini finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi se non perdonerete di cuore al vostro fratello.

La nostra libertà ha il potere di bloccare il flusso della vita: è un interruttore. Qui si capisce l’importanza del perdono, che è posto al termine dei discorsi sulla comunità. Qui lo si espone il modo negativo per far capire il positivo, cioè sappi che veramente è importante, sappi che nel perdono diventi come Dio che sempre perdona. Se, però, tu rifiuti questo, rinunci a ciò che sei, figlio di Dio, quindi sei perduto. Quindi, la nostra salvezza o perdizione è nella nostra capacità di perdono. Siccome, però, siamo incapaci di perdonare, come si fa? «Il padrone lo diede in mano agli aguzzini».

Di fronte a chi si chiude non sono necessari degli aguzzini esterni, estrinseci, perché uno è già in mano al peggior aguzzino che è egli stesso, chiuso in se stesso nel carcere peggiore che è appunto la sua chiusura e in preda a quelli che sono i suoi sentimenti che gli si rivolgono contro. Avete mai notato in che lotte viviamo quando non sappiamo perdonare una cosa? Sembra di vivere all’inferno, anche una cosa minima diventa una cosa enorme. E, invece, come è sovranamente liberante il perdono: c’è il respiro proprio di Dio.

Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi se non perdonerete di cuore al vostro fratello.

Il Padre verso noi è lo stesso che noi abbiamo con gli altri. Sarebbe meglio capovolgerlo: noi dovremmo avere con gli altri lo stesso rapporto che ha il Padre con noi. Dio perdona di cuore, cioè, mi è possibile il perdono, se porto nel mio cuore, non l’errore del fratello, neanche il mio errore, ma il perdono del Padre.

Se ricordo l’amore del Padre per me e per l’altro, allora ho questo ricordo e perdono di cuore. Se, invece, non ricordo il perdono del Padre, allora anche il perdono diventa la peggior vendetta: “guarda, sono superiore a te, so anche perdonare”. È il miglior modo per schiacciare l’altro: questo perdono non è evangelico. Invece, è quel ricordo dell’amore infinito del Padre per me e per lui che rende possibile il perdono. 

*biblista e scrittore

Il testo è la sintesi redazionale della lectio divina tenuta nella Chiesa di San Fedele in Milano nel corso di vari anni. L’audio originale può essere ascoltato qui.

Nella foto, Antonio Salvador, «La parola germogliata», fotografia, 2007 – per gentile concessione della Galleria Blanchaert, Milano

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