Nello scenario mediorientale mediterraneo il rischio che l’attenzione si concentri su un punto solo è altissimo. Il punto solo – e a mio avviso parziale – consiste nel leggere la crisi solo a partire dalle angosce o dagli interrogativi che circolano in Israele. Ovvero di analizzare la fisionomia della crisi specifica del Medio Oriente mediterraneo dentro il sistema politico israeliano. Il che significa ritenere che se quel sistema trova il modo di rispondere e di contenere la crisi, allora la crisi è risolta.
Non credo che sia possibile e quella crisi è comprensibile se, e solo se, si tiene a mente e davanti una seconda crisi, diversa, sotterranea, che riguarda la Turchia, paese che molti danno in ascesa d’opinione, ma che presenta rispetto a Israele un diverso, ma non per questo meno preoccupante, scenario di crisi.
Ma andiamo con ordine.
Dunque crisi politica di Israele. Crisi che riguarda una questione strutturale della lunga e irrisolta questione politica israelo-palestinese. Quella crisi ha una data di inizio precisa ed è il gennaio 1991 nel momento in cui tutta Israele si infila una maschera antigas per evitare gli effetti indesiderabili del primo scud lanciato da Saddam Hussein contro il suo territorio.
Molti all’interno e all’esterno identificarono allora quella crisi nel fatto che veniva meno il principio dell’autosufficienza di Israele, ovvero che in quella congiuntura la difesa della propria inviolabilità doveva affidarsi a qualcun altro per essere garantita.
Non credo che questo principio fosse il nodo cruciale della crisi di allora. Ma certo non lo era nemmeno dopo. La crisi allora riguardava un principio diverso: ovvero il fatto che ciò che crollava era il mito della sicurezza territoriale, della distanza minima per garantire la propria incolumità.
Voleva dire che il nemico non lo si poteva sconfiggere allontanandolo e che politicamente andava messa in campo una strategia diversa. L’ipotesi Peres-Rabin, al di là di tutto alludeva a questo.
La fine tragica di quel tentativo rimetteva in corsa quel principio di sicurezza che illusoriamente avrebbe definito una strategia, risultata non solo debole, ma comunque non risolutiva nella guerra del 2006.
C’è un modo di dire ebraico che nessuno in Israele pronuncia, ma che molti pensano: “Siamo con le spalle al mare”
E’ una espressione che rende perfettamente il quadro di situazione delle ultime 96 ore, ovvero della condizione in cui si trova la realtà di Israele a partire dalla mattinata di venerdì scorso, quando è diventato chiaro che la situazione all’ambasciata al Cairo rischiava di profilarsi nella scena del 30 aprile 1975 a Saigon: quella dell’elicottero che si stacca da terra e si porta via l’ultimo americano dal Vietnam.
Ciò significa che occorrerebbe pensare una politica, ma il vero problema è se si sia tempo per pensarla e soprattutto se questa nella situazione attuale – perché la politica non è mai un sistema di relazioni autoriferito, ma, appunto, necessita di un interlocutore, credibile e soprattutto autorevole – abbia un interlocutore. C’è quell’interlocutore?
Ci sarebbe, apparentemente, ma non solo non ha un ruolo, ma anch’esso è nella morsa di una crisi.
Improvvisamente la leadership della protesta è passata da Ahmadinejah a Erdogan e oggi il governo turco, certamente più moderato rispetto a quello di Teheran si trova nella posizione di esprimere il lato alto della protesta.
Ma è in grado di governare quella protesta? E soprattutto ha un peso vincolante su un’opinione pubblica? Ne dubito.
Quanto pesa Erdogan sulla gestione militare – diciamo meglio sulla scelta di sparare sulla propria popolazione – messa in atto dal governo siriano? A parte far la voce grossa, Ankara può qualcosa in quella crisi? Non sembra.
Una volta che Erdogan è al Cairo e si rivolge alla folla, è in grado di controllarne le pulsioni, di governare il sentimento, i desideri, le fantasie, la domanda politica di quella piazza? Erdogan ci proverà, indubbiamente, ma poi avrà – e visto il grado di profondità della crisi è prevedibile che quel momento non sarà rinviato all’infinito – uno show down dentro la Nato. E lì finirà la commedia.
Erdogan che fa la voce grossa, che rompe i rapporti diplomatici con Israele, che dice a Israele che non ha capito che è cambiato il registro politico in Medio Oriente, in realtà parla e comunica le sue incertezze, nel momento stesso in cui accampa il diritto di rappresentare le inquietudini che le pongono in essere.
Come aveva capito Tocqueville, non si genera l’autoriforma dall’alto dei sistemi dittatoriali, autoritari, fortemente discriminativi, credendo di gestire al’infinito il processo di transizione e illudendosi di passare a piedi asciutti il fossato oppure di superare l’abisso “a piccoli salti”. Dentro a quel processo a un certo punto si tratta non solo di scegliere, ma anche di intraprendere una strada che rende irreversibile la mediazione.
Oggi Erdogan, come Necker nel 1789, come Gorbaciov negli anni della Prestrojka, gode di una popolarità fantastica, ma rischia di non essere padrone di quel processo e delle trasformazioni in atto. Ed è credibile in quella protesta solo se radicalizza le sue scelte. Quanto può Erdogan diventare radicale? E soprattutto: lo può?
La crisi dunque riguarda non solo Israele, riguarda anche chi potrebbe configurarsi come il rappresentante autorevole del suo avversario. Ma riguarda anche l’Europa, capace di governare la rivolta a Bengasi , ma incapace di avere un ruolo per davvero in Medio Oriente. Ma questa è un’altra storia che parla della inconsistenza di una politica mediterranea di chi negli ultimi anni pensava che il Mediterraneo fosse uno scenario politico. A cominciare da Nikolas Sarkozy. Anche lì la notte è profonda.
*storico