La Camera salva Romano in un clima di guerriglia

La Camera salva Romano in un clima di guerriglia

Il governo supera l’ennesimo ostacolo parlamentare. Pochi minuti fa la Camera dei deputati ha respinto la mozione di sfiducia individuale presentata dall’opposizione nei confronti del titolare dell’Agricoltura Saverio Romano. Il ministro a rischio di rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. A Montecitorio – al termine di una seduta particolarmente movimentata – la maggioranza ha respinto il documento 315 voti a 294.

Clima teso già qualche ora prima del voto finale. Nel pomeriggio, intervenendo di fronte all’Aula dai banchi insolitamente deserti del governo, il ministro Romano aveva sottolineato il significato politico della sua vicenda: «Quello che un tempo era l’ordine giudiziario – le sue parole – ormai ha soverchiato il Parlamento e ne vuole condizionare le scelte». Il messaggio è chiaro: c’è chi cerca di colpire il titolare dell’Agricoltura con il solo scopo di danneggiare il premier Berlusconi. Un discorso a braccio, come aveva annunciato da tempo lo stesso ministro.

I toni rilassati con cui Romano aveva conversato in Transatlantico con colleghi e giornalisti prima del suo intervento cambiano. In Aula il ministro lancia una dura accusa. Chiede ai deputati di schierarsi a difesa dell’autonomia del Parlamento. Il ministro denuncia la «campagna di aggressione» che ha colpito lui, ma anche la sua «comunità politica e la famiglia». Un’aggressione per colpire un esponente politico che ha abbandonato l’opposizione – il ministro era stato eletto nelle liste dell’Udc – e ha deciso di sostenere il governo. «Ma se tutto questo è la conseguenza della scelta che ho fatto in piena coscienza e con senso di responsabilità – spiega Romano – allora sono disposto ad accettarlo».

Dopo l’intervento di Romano, il clima in Aula si fa rovente. Mentre i rappresentati dei gruppi pronunciano le dichiarazioni di voto, il presidente della Camera deve più volte richiamare all’ordine. Dagli scranni di maggioranza e opposizione si alzano grida e insulti. Il leader dell’Italia dei valori Antonio Di Pietro attacca la Lega e il ministro Roberto Maroni, colpevoli di votare la fiducia a un esponente di governo «accusato di mafia, che non si dimette». Quando prende la parola l’ex Responsabile Silvano Moffa, dai banchi dei deputati di Futuro e Libertà qualcuno intona un coro: «Venduto, venduto». Ma è al termine dell’intervento del leghista Sebastiano Fogliato che si sfiora lo scontro. E non solo quello verbale. I deputati futuristi – nell’emiciclo siedono accanto ai colleghi del Carroccio – rumoreggiano. Si sfiora la rissa. Alla fine il presidente Fini è costretto a fare intervenire alcuni commessi, che si “schierano” per dividere i parlamentari. Uscendo dall’Aula Fini commenta sarcastico: «Ormai mi sembra si sia aperto il confronto elettorale»

Dopo il caso Milanese, la maggioranza supera anche la seconda prova parlamentare. Stavolta il governo può ringraziare il sistema di voto. Lo scrutinio palese con chiamata nominale (imposto dal regolamento della Camera) evita brutte sorprese. Nessun franco tiratore, come era invece successo la settimana scorsa in occasione del voto sull’ex braccio destro del ministro Tremonti. La mozione viene respinta con 315 voti. Siamo lontani dalla quota 321 che molti esponenti dell’Esecutivo erano certi di raggiungere, ma comunque vicini ai 316 che rappresentano la maggioranza assoluta a Montecitorio.

Decisivo, anche stavolta, l’appoggio dei leghisti. Una sponda che in realtà non ha sorpreso nessuno: i vertici del partito di Bossi ripetevano da giorni che avrebbero assicurato la fiducia a Romano. Una decisione giustificata dalla necessità di non mettere in crisi la tenuta del governo. In mattinata lo stesso capogruppo del Carroccio Marco Reguzzoni aveva rassicurato il ministro, durante un fitto colloquio in Transatlantico. Eppure proprio i parlamentari della Lega (voci raccolte in Parlamento raccontano che non tutti avrebbero gradito l’indicazione di voto del partito) finiscono al centro delle critiche dell’opposizione. Non solo il duro attacco di Di Pietro. Durante la seduta i commessi della Camera devono intervenire più volte per “sequestrare” alcuni cartelli dedicati ai lumbard. «Lega poltrona» recitano i manifesti dell’Italia dei Valori, «Alla faccia ella Lega-lità», quelli mostrati dai banchi di Futuro e Libertà.

Questa volta non si apre nessun caso all’interno del governo. Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, che molti colleghi avevano duramente accusato per l’assenza durante il voto su Milanese, è regolarmente presente. Arriva nel pomeriggio, dopo l’ennesimo confronto con il premier Berlusconi sull’affaire Bankitalia. Prima si ferma a parlare con il ministro Roberto Maroni alla buvette. Poi assiste alle dichiarazioni di voto in Aula insieme al leader della Lega Umberto Bossi. Polemiche, invece, nell’opposizione. Pochi minuti prima della «chiama», i sei deputati radicali dichiarano a sorpresa che non parteciperanno al voto. Una forma di protesta per richiamare l’attenzione sui mancati provvedimenti del Parlamento per risolvere il problema delle carceri. A conti fatti, una “diserzione” che non cambia il risultato del voto. Ma che fa infuriare diversi esponenti del Pd. «Con questi dobbiamo fare i conti» si lascia scappare qualcuno in Transatlantico. 

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