La Cgil sbaglia tutto: il problema dell’Italia è la crescita

La Cgil sbaglia tutto: il problema dell’Italia è la crescita

Alcune delle motivazioni alla base dello sciopero di oggi della CGIL sono sacrosante. Le rendite sono tassate troppo poco rispetto ai redditi (motivazione 2); la precarietà è un male economico che impedisce di creare professionalità (motivazione 7); le future generazioni devono avere una pensione adeguata (motivazione 6); le imprese italiane sono troppo piccole e devono crescere (motivazione 3).
Ci chiediamo però se in un momento di gravissima crisi nazionale, con un’economia sull’orlo del default, lo strumento dello sciopero generale sia quello più adeguato, dal punto di vista economico e di merito. In poche parole, questo sciopero grida vendetta.

A fronte di un governo incapace, inadatto e impreparato a risolvere la crisi, oltre a uno spread sul Bund esploso a 372 punti, il maggiore sindacato italiano avrebbe potuto dare prova di responsabilità, e adottare altri strumenti di lotta. Il messaggio di protesta rischia di essere offuscato dal danno economico che lo sciopero potrebbe arrecare, oltre all’ulteriore messaggio negativo ai mercati. La CGIL ha perso l’occasione di dimostrarsi migliore del governo.
Dal punto di vista del merito, la prima delle motivazioni della protesta è “per uscire dalla crisi e avviare la crescita”. Forse uno sciopero non è lo strumento migliore per raggiungere quest’obbiettivo, con i mercati sotto attacco e i capitali in fuga; ma prendiamo per buona l’idea. Rimaniamo comunque perplessi di fronte alle proposte attive della CGIL, che si concentrano in maniera diretta su prelievo e distribuzione, dedicandosi ben poco a misure reali per la creazione del valore da distribuire.

Il sindacato ha pubblicato un manifesto in cui si citano tra gli obbiettivi programmatici, oltre alla lotta all’evasione e al taglio dei costi della politica, una “nuova imposta ordinaria sulle grandi ricchezze” (15 miliardi l’anno), “una sovrattassa sui capitali già sanati con lo scudo fiscale” (9 miliardi secchi), “un’imposta straordinaria sui grandi immobili” (12 miliardi secchi), e la “rimodulazione” della tassa di successione (2 miliardi l’anno). Con tutto questo la CGIL vorrebbe “costituire un fondo per la crescita e l’innovazione” e ridurre il prelievo fiscale sui redditi. Nessuna parola è spesa per il ruolo del settore privato.
L’assunto della CGIL è chiaro: il paese è ricco abbastanza, il problema è solo la distribuzione. La crisi non è strutturale, ma è un attacco della “speculazione internazionale”. La sinistra e i sindacati italiani si stanno collocando su posizioni fortemente conservatrici. Criticano la sinistra europea di governo, che si sarebbe “asservita alle lobby finanziarie internazionali”. Propongono di redistribuire il reddito (in diminuzione!) aumentando la tassazione, imponendo dazi, incrementando la regolamentazione del mercato, condito alle volte da idee di ritorno alla lira e alle “svalutazioni competitive”.

Riteniamo che la crisi dell’Italia possa essere tutto, tranne che una crisi “del mercato”. La “finanziarizzazione” è stata nel nostro paese un fenomeno marginale, rispetto a quanto avvenuto in paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna, Irlanda o Islanda. Il nostro è uno dei paesi a più alta tassazione al mondo, con un prelievo fiscale che sfiora il 50 percento, e una spesa sociale che rappresenta di gran lunga la voce di maggior esborso, e anche quella dal più rapido aumento dagli anni Novanta. La spesa per previdenza e integrazioni salariali che è schizzata da 179 miliardi di euro nel 1996, a 285 miliardi solo nel 2008.
Il nostro problema riguarda la tenuta dei conti pubblici: siamo arrivati al 120 percento d’indebitamento, e dopo vent’anni di bassa o poca crescita, i creditori iniziano a dimostrare perplessità sulla nostra affidabilità. Il bilancio statale e il debito è stato usato come camera di compensazione per i conflitti sociali, e adesso non riusciamo più ad andare avanti. A conti fatti, con il nostro fardello di debito è come se ogni lavoratore dovesse ripagare 50.000 euro netti. Dareste una simile fiducia a un paese in stagnazione da due decenni?

È umiliante che tra tasse, burocrazia, obblighi, impedimenti, un paese di gente valida come l’Italia, mediamente colta e preparata, con imprese all’avanguardia mondiale, sia costretta ai ranghi di paesi neo-industriali (o pre-industriali) come Grecia e Portogallo.
Se ne esce solo con la crescita. La priorità nella fase attuale è tornare a produrre valore, se vogliamo avere speranze di sostenere il welfare e riuscire in futuro a pagare le pensioni dei giovani. Rischiamo di essere travolti dal mercato, se non agiamo in tempo. Rischiamo di fare la fine della Russia nel passaggio dagli anni Ottanta agli anni Novanta. Signori, i barbari stanno arrivando!
Rischiamo di svenderci del tutto all’estero. Se non innoveremo da soli, saremo “innovati” da altri. Le imprese estere, molto più forti e strutturate di quelle nostrane, hanno già iniziato a invadere i nostri mercati. Le nostre campagne si sono riempite di capannoni colorati con le enormi scritte IKEA (Svezia), Mediaworld (Germania), Saturn (Germania), Zara (Spagna), Decathlon (Francia), H&M (Svezia), Auchan (Francia), Carrefour (Francia), cui rispondiamo solo con le COOP (e non è un caso). Ci stanno abbandonando i grandi marchi della moda e del lusso. Bulgari è stata comprata da Louis Vuitton (Francia), Gucci è stata comprata da Pinault-Printemps (Francia), Valentino è stata comprata dal fondo Permira (GB), Ferrè è stata comprata da Paris Group (Dubai), Safilo è stata comprata da Hal Holding (Olanda), Coin è stata comprata da Pai Partners (Francia), Standa è stata comprata da Rewe (Germania).

L’Italia potrà riemergere solo attraverso una “reindustrializzazione” del paese, per mano privata; ma per fare questo occorre agire sulla finanza, sulla tassazione e sulla riforma del lavoro. Bisogna tagliare davvero i costi della politica. Bisognerà combattere il precariato, ma insieme a questo introdurre una possibilità concreta di licenziare e fare vere politiche del personale, con intervento sociale solo dopo l’uscita dall’azienda. Bisognerà privatizzare molte aziende statali a struttura integrata, che presidiano in mercato e rendono impossibile la concorrenza. Bisogna agire davvero per riportare la certezza del diritto, riducendo il tempo e i costi dei processi.
Lo stato, da solo, non è in grado di gestire la crisi. La CGIL comunica che al Ministero dello Sviluppo Economico ci sono 87 tavoli di crisi aperti, con 225.000 lavoratori in bilico e mezzo milione di cassintegrati. Come si può pretendere che un soggetto statale riesca a risolvere tutte queste situazioni?

Certamente farà il possibile, e ci auguriamo che riesca; ma una quantità così immane di crisi dipende necessariamente da condizioni strutturali di mercato: è difficile o impossibile fare impresa.
Le maggiori tasse possono essere accettate nel breve periodo per mantenere in piedi il bilancio, ma questo non può prescindere da un nuovo rapporto di fiducia con gli imprenditori. È dalle imprese che dipende la possibilità di generare ricchezza. È dal dinamismo economico che dipende la mobilità sociale: con l’attività economica i più motivati possono diventare benestanti, e produrre a loro volta valore.

Si cita in questi casi la situazione tedesca a modello: anche lì le tasse sono alte, il welfare è diffuso, ma l’economia è ricca. Bisogna però considerare tutti gli aspetti della Germania, inclusa una selezione spietata delle persone, che inizia prestissimo (anche a nove anni!), con numeri chiusi rigorosissimi alle Università e un rispetto assoluto per le imprese. Non ci sono ricorsi al TAR che tengano, scappatoie, sotterfugi. Si può licenziare più facilmente rispetto all’Italia: se l’imprenditore dimostra di non poter mantenere in organico un lavoratore, può pagare un risarcimento. E dalla riforma draconiana dell’assistenza sociale (“Hartz IV”) in piena forza dal 2005, dal grave costo politico.

In Italia questa esclusiva concentrazione sulle tasse sembra di rintracciare sfiducia, quasi disprezzo, per chi produce ricchezza. Gli imprenditori sono considerati sfruttatori del lavoro altrui ed evasori fiscali. È comprensibile, visto il retaggio culturale che il latifondismo ha lasciato nella società. Esiste però tutta una lezione novecentesca di impresa aperta, mobilità sociale, crescita ed espressione economica, entusiasmo di idee e creazione di valore aggiunto, che l’Italia deve tornare a imparare. La crescita economica si ha se un sistema è in grado di valorizzare e far fruttare le idee nuove, e le imprese sono in grado di fare questo.

Non esistono alternative. Anche se tornassimo alla lira, con i pessimi conti pubblici che abbiamo, gli interessi sul debito esploderebbero e il default sarebbe immediato. Le “svalutazioni competitive” non avrebbero alcun effetto: lo fa già la Cina, su altra scala e con altre capacità. Inoltre, le svalutazioni avvantaggerebbero solo chi esporta; per gli altri, ci sarebbe solo la benzina a cinque euro al litro (diecimila lire!).

Non lasciatevi strumentalizzare, e non credete che uno sciopero risolva le cose. Sia colpa degli speculatori, dei neoliberali, dei capitalisti, di Milton Friedman, di Reagan e della Thatcher, di Berlusconi e di Tremonti, di Blair, Bush, Zapatero, di Goldman Sachs, di McKinsey, di Greenspan, di Lehman e di chi non l’ha salvata: adesso i soldi sono finiti, e se ne esce producendo ricchezza, non solo aumentando le tasse. La responsabilità sarà di chi lavora, e sarà necessario fare dei sacrifici.