L’università sforna laureati e costa troppo

L’università sforna laureati e costa troppo

Mentre in Italia si continuano a produrre statistiche sulla disoccupazione giovanile, a lamentarsi del precariato e della mancanza di sbocchi nel mercato del lavoro per le nuove generazioni di laureati, negli Stati Uniti si comincia a parlare di un argomento per certi aspetti tabù: la education bubble. Una bolla, come quella dotcom o come quella immobiliare, ma che questa volta avrebbe per oggetto l’educazione terziaria.

Una bolla fatta di laureati e post laureati: sarebbero troppi e troppo costosi, un modo carino per dire che una fetta di questi se non sono inutili avrebbero comunque fatto meglio a fermarsi prima o quantomeno a studiare altro. Insomma, non è detto che l’università realizzi sempre le aspettative che tradizionalmente evoca e se questo non accade, inutile dare colpa alla società.

L’ultima provocazione viene da Peter Thiel, co–fondatore di Paypal e tra i primi ad investire nella neonata Facebook, quando ancora era ben lontano dall’essere il social network globale per eccellenza. Il tizio, che un po’ di naso lungo per l’innovazione l’ha quantomeno dimostrato, ha offerto 100 mila dollari a 20 teenager per non proseguire negli studi universitari e fondare imprese start–up in settori che spaziano dall’informatica alle biotecnologie. I vincitori sono il frutto di una selezione tra diversi progetti presentati dai candidati e oltre ai soldi riceveranno il supporto di esperti e consulenti messi a disposizione da una fondazione creata dallo stesso Thiel. Il tempo previsto per sviluppare le proprie idee è di due anni, trascorsi i quali chi vuole potrà tornare sui banchi di scuola.

Non è un gesto disinteressato né uno sfizio naif di un tale che proprio non sapeva come fare a spendere 2 milioni di dollari. Tutt’altro è un piano imprenditoriale preciso che parte dalla convinzione che sia più proficuo fare da “incubatore” ai migliori anziché spedirli lungo un percorso didattico standardizzato e costoso. Costoso per i diretti interessati quando pagano di tasca propria (o si indebitano per farlo come di norma succede negli Usa), costoso per i contribuenti che lo sovvenzionano quando frequentano università statali. Ma attenzione quello di Thiel non è un elogio dell’ignoranza: basta guardare i curricula ed i progetti vincenti per trovare anche diciottenni undergraduate al Mit. È piuttosto una critica ed una sfida al tempo stesso.

La politica ritiene che quanto più il mondo diviene complesso, tanto più sia necessario sussidiare percorsi di studio (anche lontani dalle esigenze del mondo del lavoro) che finiscono per allungarsi a dismisura. E mette mano al portafoglio dei contribuenti per farlo, certa del fatto che questionare la redditività dei soldi spesi nella pubblica istruzione è elettoralmente inutile e dannoso. In pratica si allunga il processo educativo senza porsi il problema di ripensarlo strutturalmente. La tecnologia consente di ridurre i tempi, di intensificarli, di rimodulare la formazione lungo la vita lavorativa, di abbattere i costi e le barriere all’ingresso. Fino a non molto tempo fa si credeva che informatica e automazione fossero essenzialmente fonti di problemi per le tute blu ed i rischi di riqualificazione professionale non riguardassero i colletti bianchi se non in misura marginale o comunque accettabile. Sbagliato.

L’automazione va a nozze con qualsiasi tipo di routine falciandone tempi e costi: possiamo essere certi che praticamente ogni settimana esca almeno un software in grado di rendere ridondante qualche testa in qualche ufficio amministrativo a giro per il mondo, mentre è molto più probabile che dovremo attendere ancora un po’ per il camionista o l’infermiere robot. In un mondo profondamente rivoluzionato dall’informatica prima e da internet dopo, la scuola è probabilmente l’unica attività che continua a ricalcare ancora il calendario della semina del grano.

Quando l’istruzione rimane a pagamento costi e ricavi sono relativamente più facili da calcolare, mentre nel caso dell’istruzione pubblica devono essere tenuti in considerazione tutta una serie di fattori non monetari che cominciano con la qualità dell’insegnamento e dei servizi connessi fino ad arrivare alla spendibilità reale del titolo conseguito. Possiamo anche credere che paragonare l’istruzione terziaria ad una growth stock dal rapporto prezzo utili piuttosto caro, come fatto da Jerry Bowyer su Forbes sia scarno e riduttivo, ma il problema resta. Non è in discussione l’utilità del sistema universitario, così come nessuno ha mai pensato durante la bolla immobiliare di affermare che fosse meglio vivere sotto un ponte piuttosto che tra quattro mura.

Piuttosto il punto è chiedersi se quanto viene speso valga nel complesso il prezzo del biglietto, se una parte di quello che viene considerato investimento in capitale umano non sia almeno in parte piacevole consumo di attività culturali e tempo libero e se invece non vi siano ampi margini di ottimizzazione. Quando anche i più costosi college americani, da decine di migliaia di dollari a semestre, spediscono a casa dei genitori lettere di lagnanza sulla frequenza dei party ad alto tasso alcolico nei campus, beh il dubbio che qualcuno se la stia prendendo comoda può insorgere.

Anche nel caso del nostro paese non sarebbe male porsi domande politicamente scorrette del tipo quanto conviene spendere soldi pubblici per finanziare i fuori corso. Oppure chiedersi in che misura non sia preferibile migliorare il contatto università – lavoro offrendo strumenti idonei a cogliere la domanda di formazione proveniente anche da parte di chi nel mondo del lavoro è già inserito anziché investire su chi allunga i tempi rifiutando voti o accumulando ritardi, e interrogarsi se nel lungo termine è auspicabile che tutti raggiungano il fatidico pezzo di carta o se invece è meglio investire sulle eccellenze favorendo una dura selezione. Perché la competizione meritocratica non è tale se accanto ad un limitato numero di premiati non vi è un congruo numero di scartati. Tutto questo in termini di decisioni di spesa pubblica si traduce brutalmente nella seguente domanda: quanti soldi dobbiamo puntare nel recupero dei brocchi e quanti sui cavalli vincenti?

Considerando anche solo le lauree di primo livello, solamente il 22% dei laureati totali, corrispondente a uno studente ogni die­ci immatricolati all’inizio del ciclo, termina entro la durata regolare del corso mentre il 30% si laurea entro il primo anno di fuori corso e quasi il 50% un ri­tardo superiore all’anno (fonte: Cnvsu, «Decimo rapporto sullo stato del sistema universitario», dicembre 2009). I filtri all’ingresso in grado di contrastare il fenomeno sono piuttosto limitati e di dubbia efficacia, sia sotto il profilo qualitativo che equitativo. Il caso più macroscopico è rappresentato dalle facoltà di medicina, dove il costo standard ammonta a circa 24.786 euro per iscritto contro gli 8.959 euro delle altre facoltà scientifiche e i 4.976 euro delle facoltà di ingegneria. Considerata la sicurezza degli sbocchi occupazionali (in molti casi rappresenta una buona ipoteca verso un posto all’interno del Sistema Sanitario Nazionale) e la tendenza della classe medica italiana a riprodursi su basi “genetiche” (il 35% – 40% dei medici e figlio di un medico) non sarebbe il caso di chiedere un contributo in termini di tasse universitarie sensibilmente più alto agli aspiranti camici bianchi? Quanto è eticamente accettabile che operai e commesse sovvenzionino l’istruzione dei figli dei dottori?

C’è una costante che caratterizza le (ricorrenti) proteste che coinvolgono il mondo scolastico ed universitario italiano: le richieste non vanno mai significativamente oltre la coppia “più soldi” e “più personale” e magari senza valutazioni di merito, come se i vincoli di scarsità fossero una piaga che deve affliggere solamente il settore privato o il portafoglio di papà. Ovviamente tutto all’insegna dell’uguaglianza più spinta per cui lo stipendio da ricercatore è senza sostanziali differenze tra facoltà umanistiche (dove tutto sommato 1200 euro al mese sono una pacchia in confronto a doversi fare il mazzo come giornalista freelance) e scientifiche (dove un ingegnere con tanto di dottorato e pubblicazioni può superare con facilità quella soglia).

Il risultato potenziale di questo meccanismo è una selezione avversa per cui è incentivato alla carriera accademica (o nel pubblico impiego) chi ha competenze poco spendibili sul mercato del lavoro oppure chi è abbastanza “ammanicato” con il barone di turno. Il rischio? Una bolla di competenze ridondanti, un freno all’eccellenza.

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