Ma se la Grecia è insolvente perché non fallisce?

Ma se la Grecia è insolvente perché non fallisce?

Ciò che sta succedendo sui mercati finanziari europei ha del paradossale. Da tre mesi a questa parte, ogni settimana borsistica si apre con nuovi timori, nuove paure, nuovi spettri. Le banche continuano a essere oggetto di vendite copiose e i politici europei invocano il Consiglio europeo del 21 luglio, il meeting che avrebbe dovuto risolvere la crisi che sta vivendo l’Europa. In realtà, tutto ruota intorno alla Grecia e al suo destino. È dal novembre 2009 che, negli ambienti bancari, si sa perfettamente che Atene è insolvente. Così accade quando spendi, per un lasso di tempo troppo lungo, più di quanto incassi. Ma la Grecia è in Europa e quindi c’era l’obbligo morale di aiutarla. «Salviamo Atene per stabilizzare l’Ue», era il mantra nella Commissione europea fra il dicembre 2009 e il maggio 2010, data del primo salvataggio ellenico. Eppure, già si sapeva che sarebbe stato inutile.

A quasi due anni di distanza, la situazione greca non è cambiata. Il debito pubblico veleggia verso lidi inesplorati per l’eurozona, in barba al Trattato di Maastricht che lo vorrebbe al 60% del Prodotto interno lordo. Il deficit da inizio anno è stato rivisto al ribasso proprio oggi, da 15,67 miliardi di euro a 18,6 miliardi. Nel frattempo, ogni tranche del maxi piano di sostegno varato nel 2010 diventa un tira e molla fra il Governo greco e la trojka composta da Fondo monetario internazionale, Bce e Ue. «Non rilasceremo la sesta parte di aiuti se non saranno raggiunti gli obiettivi previsti nel programma di consolidamento fiscale», ha ripetuto oggi un alto funzionario del Fmi.

Intanto, Atene continua a spendere e allargare il proprio buco di bilancio. I mercati finanziari questo lo sanno e hanno smesso da tempo di credere alle parole dei politici europei. Uno dato singolare è quello sui Credit default swap (Cds), i derivati che fungono da assicurazione sul fallimento di un asset. Nel caso della Grecia il Cds vale oltre 5.800 punti base. Vale a dire che un investitore, per proteggersi dall’insolvenza di un titolo di Stato ellenico di durata quinquennale del valore nominale di 10 milioni di dollari, deve spendere oltre 5,8 milioni di dollari l’anno. Facile intuire cosa voglia dire per un operatore. Ma c’è di più. I segnali che si sta arrivando al capolinea si notano anche dai rendimenti dei bond governativi a uno o due anni. Per i primi lo yield è fissato a quota 115,776%, mentre per i secondi è invece a quota 65,414 per cento. Anche in questo caso, solo la miopia della classe politica europea potrebbe non cogliere l’evidenza. 

La questione ora è capire cosa fare. Senza il fallimento non esisterebbe il capitalismo. Questo assioma deve essere tenuto ben presente. Tutta la storia economica del mondo è stata costellata di fallimenti. Tabula rasa e via, si riparte. Certo, i costi possono essere molto elevati, ma vanno a riequilibrare il bengodi degli anni precedenti. Si spende, si vive al di sopra delle proprie possibilità e poi arriva il conto da pagare. In questo caos, la domanda che tutti si stanno ponendo è: esiste un Piano B? Per ora il rollover del debito sovrano ellenico non ha ricevuto l’appeal sperato da parte dei creditori privati, principalmente banche. Anche in questo caso, non era difficile intuire che sarebbe stato così. La crisi finanziaria derivante dal contagio greco dell’eurozona ha colpito durante gli istituti bancari del Vecchio continente e una ulteriore riduzione degli attivi in portafoglio, specie a fronte di ridottissimi benefici, è vista dagli istituti di credito Ue come una beffa.

Rimane una sola scelta, forse drammatica, sicuramente impopolare. La Grecia, se non è in grado di onorare i propri debiti, deve quanto prima dichiararsi insolvente. Facendo così, fugherebbe tutte le voci che continuano a innervosire gli investitori, allontanandoli sempre più dall’eurozona. Qualcuno potrà obiettare che la Grecia conta relativamente poco nell’Europa, ma sta sbagliando. Atene fa parte dell’eurozona e ha messo in luce tutte le lacune nella gestione delle criticità finanziarie, prima fra tutte l’espulsione di uno Stato dalla stessa area della moneta unica. Tuttavia, buttare all’aria oltre sessant’anni di integrazione europea dovrebbe essere solamente l’ultima delle possibilità, quello che è detto il worst case scenario. La Germania, nonostante si dica e scriva il contrario, non vuole la disgregazione di un progetto che lei stessa ha creato e in cui crede ancora. Non vuole però subire i ricatti finanziari da parte di altre nazioni, compresa anche l’Italia, che stanno giocando con il fuoco del debito.

Riforme, austerity, consolidamento fiscale, rigore di bilancio e, soprattutto, niente più menzogne. Sono questi i punti su cui si sta spingendo in ambito europeo. Dopo 20 anni di sbornia, è arrivato il momento di tirarsi su le maniche e stringere la cinghia. Se non lo si vuol fare, la dichiarazione d’insolvenza (e l’eventuale uscita dall’eurozona) non è più un problema europeo, ma del singolo Stato. Sua la responsabilità di spesa, sua la responsabilità del proprio destino.  

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