ISTANBUL – Il premier turco Recep Tayyip Erdogan va a New York per partecipare alle riunioni dell’assemblea generale dell’Onu (in programma questa settimana) osannato da tutto il Medio Oriente come uomo della pace. Al palazzo di vetro il presidente Obama parlerà dei problemi della regione, in primis il riconoscimento dello Stato palestinese. Ma nello stesso tempo nel Mediterraneo la Turchia rischia di scatenare una guerra. Nelle ultime ore Ankara ha lanciato un ultimatum pesante all’Unione Europea, dicendosi pronta a rompere le relazioni se entro fine 2011 non verrà trovata una soluzione condivisa sull’isola di Cipro, che l’intervento armato turco spaccò in due nel 1974.
Da quel momento si vive in una situazione paradossale, con la parte greca dell’isola, membro della Ue, e riconosciuta da tutta la comunità internazionale tranne che da Ankara e, la parte turca conosciuta come la Repubblica turca di Cipro Nord, ma non riconosciuta dalla comunità internazionale. Potrebbe essere proprio l’ultimo muro d’Europa quello su cui andrà a scontrarsi l’allargamento più ambizioso che Bruxelles vorrebbe mettere in atto, ma al quale forse non ha mai creduto fin dal primo momento: quello alla Turchia.
E non solo per le motivazioni dettate da una dolorosa ferita storica, dove I torti e le ragioni di entrambe le parti sono così stratificati da diventare sempre più difficili da comprendere. La grande crisi del Mediterraneo rischia di consumarsi per giacimenti di gas e petrolio, al largo di Cipro, di entità ancora ignota ma che qualche addetto ai lavori ha stimato in parecchi miliardi di dollari. Ankara non ha nessuna intenzione di lasciarsi scappare un boccone così prelibato, soprattutto se dall’altra parte ci sono non solo Cipro, ma anche Israele, che collaborerà con la parte greca.
Per questo il premier Erdogan prima di andare a New York ha confermato una voce che si rincorre da domenica pomeriggio, ossia che entro una settimana anche la Turchia inizierà le operazione di sondaggio dei fondali al largo di Cipro. Sempre nel fine settimana il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, ha concretamente aperto all’ipotesi di inviare navi da guerra per proteggere le operazioni. Non è la prima volta che si arriva sull’orlo della crisi. La faccenda dei giacimenti sul fondo del Mediterraneo è nota almeno dal 2006 e già nell’inverno dello stesso anno si era rincorsa la voce che Ankara volesse fare uscire alcune fregate per controllare la zona.
Ma il contesto era diverso. La Turchia era un Paese che aveva appena iniziato il suo cammino negoziale, era un Paese considerato affidabile dagli Usa e soprattutto la frattura con Israele era ancora lontana. La vicenda dei giacimenti e la contesa con Cipro erano considerati, a torto da Bruxelles, come l’evoluzione di un problema regionale sul quale prima o poi l’Europa sarebbe stata costretta a intervenire e dove invece non ha fatto nulla per risolvere, aggravando invece la situazione con l’ingresso nella Ue della parte greca dell’isola, avvenuto nel 2004.
La situazione oggi è ben diversa ed è inquietante. L’Europa è in una situazione di profonda crisi e rischia di venire travolta dal debito della Grecia. La Turchia sembra l’astro nascente della politica internazionale, colei che si può permettere di rompere con Israele, dettare condizioni alle Nazioni Unite e dare ultimatum a Bruxelles. Salvo poi considerare alcuni particolari. L’Europa, esattamente quella con cui la Turchia rischia di rompere i rapporti, al momento rappresenta oltre il 40% del suo export, nonostante le posizioni guadagnate negli anni nello scenario geopolitco dei paesi musulmani con cui Ankara ha avviato la politica del buon vicinato. La domanda che ci si pone è dove voglia arrivare Ankara, oltre che a contare di più. Per il momento il risultato che rischia di raggiungere è quello di passare dalla lista dei Paesi ponte fra Oriente e Occidente, dov’era l’unica, alla lista dei Paesi che creano problemi. E lì è in una nutrita compagnia.