Qualcosa sta cambiando sui palcoscenici operistici italiani. E, viene da dire, era tempo. Per diversi lustri pochi maestri italiani della regia d’opera (nominiamo i più prestigiosi: Zeffirelli, Pizzi, Pier’Alli; Ronconi come vedremo è un caso a parte) hanno dominato i cartelloni delle stagioni liriche e, per quanto il loro lavoro sia stato spesso geniale e abbia dato riconoscibilità alla nostra tradizione, è innegabile che il dialogo con i linguaggi correnti sulla scena internazionale fosse sempre più rarefatto. Per realizzare una messa in scena contemporanea era necessario importare artisti stranieri: gli spettacoli memorabili erano perlopiù firmati Robert Carsen, Patrice Chéreau, Graham Vick.
Il primo segnale forte lo ha dato la Scala nel 2009 affidando la Carmen del 7 dicembre a Emma Dante. Nel 2011 il panorama è ricco: al Regio di Torino hanno trionfato i Vespri Siciliani di Davide Livermore con la vicenda trasportata sullo scenario della strage di Capaci; alla Fenice di Venezia Damiano Michieletto sta preparando il suo nuovo allestimento delle Nozze mozartiane dopo l’impressione suscitata dal suo Don Giovanni due anni fa, e all’Arena di Verona è andato in scena il Roméo et Juliette di Gounod messo in scena da Francesco Micheli (omonimo del presidente del Festival MiTo), anche lui applaudito recentemente alla Fenice con una nuova Bohème. Registi con età e personalità diverse, ma con alcuni tratti comuni: la voglia di tornare a raccontare e la fiducia nell’efficacia drammatica del melodramma. Il caso di Verona è significativo: nel 2010 l’Arena aveva programmato solo titoli superpopolari con regie di Zeffirelli, un po’ come decidere di mangiare solo foie gras per un anno. Nel 2011 il pubblico ha applaudito un’opera che certo è dedicata al massimo mito veronese ma è pur sempre ai margini del repertorio, e in una messa in scena tutt’altro che convenzionale. La critica ha apprezzato: la Repubblica ha parlato di spettacolo simbolo del nuovo corso areniano.
Incontro Francesco Micheli a Milano, davanti a un paio di Pimm’s.
Mi sembra che per molto tempo ci sia stata una sostanziale sfiducia nell’efficacia teatrale del melodramma, con i tradizionalisti a cercare di rianimare l’opera morente con scenografie sempre più sfarzose e gli innovatori pronti a chiamare un Dramaturg per riscrivere tutto. Ora vedo una nuova voglia di raccontare.
È vero che ad unire i nuovi registi italiani c’è un ritorno alla narrazione. Prima di noi la figura fondamentale è stata Ronconi: nel suo caso non si tratta di sfiducia nella drammaturgia ma di una lucida operazione di decostruzione. Ronconi ha sistematicamente smontato i meccanismi drammaturgici, nella prosa come nell’opera. E noi siamo figli di questo ’68, ripartiamo dalle macerie, dalle barricate. Personalmente con enorme gratitudine, perché solo da quella rivoluzione poteva ricominciare qualcosa di diverso. Ora riallacciamo il dialogo con i padri. È quello che ha fatto Livermore con i Vespri a Torino: vedere in Verdi un padre che ci ha lasciato un testamento non letto, non capito, che ora possiamo prendere alla lettera e rifare nostro.
In qualche modo l’atteggiamento verso la tradizione passa dal “prendere o lasciare” a un’analisi più matura.
La tradizione è una ricchezza che non dobbiamo riproporre con rigidità ma considerare un patrimonio di musica, parole e consuetudini da rivivere. Ci sono riti e costumi che non hanno più nessun significato, altri che ci parlano ancora: ma devo capire quali. Il teatro d’opera italiano esce da un decennio di crisi: equivocando il lascito di Visconti e Strehler abbiamo ridotto la regia a scenografia. I maestri – perché comunque sono maestri – del nostro teatro mostrano l’eccellenza dell’artigianato, la qualità del Made in Italy, che però dovrebbe sempre essere un mezzo, non un fine. E c’è anche una grande povertà di dialogo: il dibattito si è concentrato sulle opposizioni tradizionale/trasgressivo, costumi d’epoca/attualizzazione, ma queste sono categorie poverissime. D’altra parte troppo spesso il teatro di regia degli anni scorsi si è limitato a una pedissequa trasposizione nella modernità. Oggi cerchiamo di fare un discorso più serio che consiste nel creare una corrispondenza biunivoca tra noi e la tradizione. È come il rapporto tra generazioni: da piccolo mi costringevano ad andare a trovare mia nonna vestito da marinaretto; da adolescente per reazione ci andavo vestito malissimo; ora che sono adulto ci vado con i miei vestiti ma con considerazione e rispetto.
Qual è allora il tuo rapporto con la lettera del libretto?
Il processo di creazione dello spettacolo da parte del regista dovrebbe ripercorrere quello del compositore. La parola è solo il punto di partenza, un fonema che diventa musica: tra suono e significato si crea un rapporto dialettico, molteplice. L’attualità del melodramma è qui: l’opera ci si offre con la stessa affascinante complessità dei linguaggi cibernetici. L’idea di ipertesto è connaturata alla struttura del teatro musicale.
Da dove viene il tuo approccio al teatro d’opera?
Devo molto alla mia formazione extraoperistica: sia all’università con Elio Franzini che mi ha insegnato come si legge un testo, sia alla Paolo Grassi dove maestri come Gigi dall’Aglio e Gabriele Vacis hanno cresciuto un’intera generazione di teatranti. Grazie a loro mi sono accostato all’opera con passione non cieca. Negli anni successivi è stato fondamentale il confronto con un regista come Daniele Abbado. Devo dire che la difficoltà maggiore all’inizio è non essere schiacciati dalla tradizione, questo è il problema di tanti talenti italiani.
Rispetto agli allestimenti areniani tradizionali il tuo Roméo sembrava cercare una diversa soluzione al problema dello spazio: da un’idea di occupazione a un’idea di utilizzo, dalla prevalenza della scenografia alla prevalenza della regia.
È stata l’unica vera difficoltà in un lavoro in teatro che nel complesso è stato superlativo. Le maestranze artistiche e tecniche dell’Arena sono semplicemente il meglio, però io ho portato una modalità di fare teatro molto diversa dalla loro prassi. Esiste un’idea di scenografia come occupazione di uno spazio da arredare: invece il teatro barocco ci insegna che la scenografia deve essere un attore quanto i cantanti. Deve cambiare colore, trasformarsi, aiutare a raccontare, e per questo serve una scenotecnica nuova. Credo che con Edorardo Sanchi e Silvia Aymonino (scenografo e costumista) abbiamo segnato una svolta in Arena, e il teatro, non solo la direzione artistica ma il complesso delle maestranze, ci ha detto di sì.