L’accesso al credito e al capitale aiuta lo sviluppo economico. Le piccole imprese possono trovare i denari che servono per investire e quindi svilupparsi. Senza il libero accesso al credito e al capitale, le piccole imprese non possono competere con le grandi. Dunque, alla fine, le grandi imprese restano dei mastodonti poco competitivi (o meno competitivi di quanto altrimenti sarebbero) che si fanno pagare più del necessario i beni e i servizi che producono. E i consumatori ci rimettono.
Un sistema finanziario che dia credito, collochi le obbligazioni e le azioni anche per le piccole imprese è dunque cruciale per lo sviluppo economico. Laddove per sviluppo economico si intende anche la crescita dell’occupazione, che avviene normalmente attraverso le nuove imprese, che, in origine, sono piccole. L’alternativa al libero mercato del credito, delle obbligazioni e del capitale di rischio, è il capitalismo dei compari (crony capitalism), laddove per avere successo si deve essere cooptati dalle élites dominanti. Considerazioni simili – ma più macchinose – si possono fare anche per i mutui ipotecari.
Fatta la premessa, che è volta a ribadire che una finanza “aperta” e “sveglia” è essenziale allo sviluppo economico, arriviamo a Lehman, di cui ricorre in questi giorni l’anniversario. Lehman – la cui bancarotta risale al 15 settembre 2008 – è l’epitome di quel che non si doveva fare. Dopo aver assunto dei rischi esagerati, poiché tali rischi si condividono con altre istituzioni finanziarie, quando è fallita ha coinvolto pezzi importanti del sistema. Ma perché tutti erano pronti a prendere rischi che si sono poi rivelati catastrofici? Per cercare una risposata dobbiamo partire (quasi) da Adamo ed Eva.
Nel 2006 l’industria finanziaria era estasiata per quanto le cose stavano “andando bene”. Le borse continuavano a salire. I rendimenti sul debito pubblico erano stabili. Insomma, tutto sembrava procedere per il meglio. All’orizzonte si potevano anche intravedere delle nubi, ma queste non avevano la conformazione della tempesta. La crisi, invece, arrivò – e improvvisamente – nella primavera-estate del 2007. Allora ai più non sembrò molto grave. Ancora nell’autunno del 2007 le borse erano giunte ai massimi storici. Da allora, fino alla primavera del 2009 si è avuta solo una caduta. Prestigiose banche d’affari in fallimento, fra cui la Lehman, salvataggi privati e pubblici, e via dicendo.
I lungimiranti – dopo lo scoppio della crisi si è naturalmente scoperto che erano la maggioranza – avrebbero anche potuto scommettere contro “le magnifiche sorti e progressive” dei mercati finanziari. Ossia, se fossero stati coerenti, avrebbero potuto farsi prestare i titoli e venderli. Poi avrebbero ricomprato i titoli ad un prezzo inferiore, lucrando la differenza. Se in molti fossero andati – come si dice in gergo – “scoperti”, ecco che i prezzi non sarebbero saliti tanto, e dunque la crisi non sarebbe stata altrettanto grave. Dunque “i lungimiranti” non hanno agito, lasciando il mercato nelle mani degli “entusiasti”. Incoerenti o impossibilitati ad agire? Scommettere contro i mercati stabilmente in salita è molto pericoloso. Se uno vende un titolo preso a prestito che vale 10 e questo va a zero, ha guadagnato 10. Se uno vende un titolo preso a prestito a 10 e questo va a 100, ha perso 90. Se per qualche tempo la strategia non funziona, si manifestano delle grosse perdite. Il gestore che – lungimirante – ha scommesso contro i mercati, vede il patrimonio affidatogli ridursi per effetto dei riscatti della clientela. È quindi molto più facile che con un mercato stabilmente in ascesa quasi tutti decidano di guadagnare “andando lunghi”, ossia comprando i titoli per tenerli. Finisce così che non si crea un’opposizione nel parlamento dei prezzi in salita. Si crea piuttosto un sistema a partito unico in cui tutti fanno le stesse cose, anche quelli che “non ci credono”. Se tutti credono alle stesse cose, allora i prezzi salgono, e dunque si lucrano senza rischi dei bonus cospicui. Conveniva dunque non essere originali.
Si potrebbe obiettare che si doveva – anche nella razionalità del conformismo – tenere conto del rischio. E qui abbiamo una seconda spiegazione del perché la crisi ha preso tutti alla sprovvista, oltre al fatto che allora nessuno osasse scommettere contro i mercati in ascesa . I sistemi di controllo del rischio non hanno tenuto conto degli eventi a bassa probabilità, ma capaci di effetti devastanti. Un esempio di evento a bassa probabilità fu l’attacco alle Torri Gemelle. Dopo un periodo di prolungata stabilità, come quello del 2002-2006, si era finiti col pensare che ormai ci fosse una riduzione permanente del rischio. Si pensava in questo modo anche perché così era lecito prendere dei rischi maggiori. Credendo che fosse una scelta “scientifico”, cioè contando sul realismo delle distribuzioni di probabilità con “code sottili”: quelle dove la possibilità che accada qualche cosa di grave è molto remota.
Tutto questo – il conformismo unito all’ingenuità nel controllo del rischio – non basta a spiegare la crisi. Si deve anche capire perché le obbligazioni – soprattutto quelle con “in pancia” i mutui ipotecari – abbiano combinato un tale disastro.
Non si possono studiare in modo serio ed omogeneo i bilanci degli emittenti titoli senza incorrere in spese immense. Conviene che qualcun altro li studi. E che ne studi molti per diversificare i portafogli. L’investitore poi ha bisogno di un voto che dia intelligenza del rischio. Questa è la logica delle agenzie di rating. Ma queste ultime di che cosa vivono? Non potendo non diffondere i risultati delle analisi (le obbligazioni vengono acquistate solo se hanno un voto), andrebbe a finire che nessuno le voglia pagare. Oppure, se qualcuno le paga, si spierebbe nelle pieghe dei bilanci altrui alla ricerca di che cosa è stato comprato.
L’informazione di chi produce rating non riesce a farsi pagare a meno che non la paghi l’emittente titoli, che così crea il mercato per la propria offerta. L’emittente titoli pagherà volentieri la società di rating che lo giudica ottimo, piuttosto che quella che lo giudica medio. Si forma così un’asta inefficiente, dove viene premiato chi dispensa i risultati più generosi. Accade un po’ come per le università larghe nei voti: capaci di trovare sempre nuovi studenti disposti a sapere meno in cambio di un impegno minore. La gran parte delle emissioni di obbligazioni aveva “i voti molto alti”. E questo bastava perché finissero nei portafogli degli investitori. Per chiudere con l’esempio, alla fine le imprese hanno assunto gli studenti meno preparati pur credendo che fossero dei “fulmini”: a loro bastava guardare distrattamente il voto di laurea.
Tirando le somme: 1) l’ottimismo è più facile da gestire del pessimismo («la sindrome di Rossella O’Hara»); 2) si tende a dimenticare che il rischio è nelle pieghe delle cose (si dimentica la «coda del diavolo»); 3) infine, si crede che, se tutti pensano che una cosa sia vera, allora è vera (la «saggezza della folla»).
Così scoppia la crisi nel 2008 e il sistema finanziario è salvato – per evitare il peggio – dagli interventi pubblici. Alcune banche ne assorbono altre, aumentando la concentrazione dell’industria finanziaria. Le imprese finanziarie diventano sempre più grosse e sempre più pericolose in caso di fallimento (too big to fail). Più diventano grosse e più saranno certamente salvate in caso di crisi. Dunque saranno autorizzate a rischiare più di quanto rischierebbero se potessero fallire. Si crea il cosiddetto “azzardo morale” e il rischio nel sistema non diminuisce. Non diminuisce perché è più rischioso scommettere contro i mercati che salgono. Perché ci sono sempre gli eventi remoti dietro l’angolo e perché – ecco la novità – più un’impresa diventa grande più alza la soglia del rischio.
La soluzione alla crisi proposta da alcuni, è quella di dividere l’attività bancaria in due. Da una parte quella di credito ordinario, che presta il denaro raccolto soprattutto con i depositi. Dall’altra in quella d’investimento, che investe senza usare i depositi, ma che si finanzia con le proprie obbligazioni e le proprie azioni. Insomma, la banca “universale” che si è formata da qualche decennio, si divide fra le operazioni di un’azienda noiosa che presta denaro per le attività ordinarie delle imprese e delle famiglie, e quelle di un’impresa brillante che, se sbaglia, fallisce. Nella prima banca lavorano persone tristi e vestite con abiti dozzinali, nella seconda quelle con capi firmati, che parlano sempre al telefonino.
Non si è fatta la riforma della finanza. E oggi abbiamo ancora un rischio sistemico elevato come si evince dalle vicende delle banche europee, che hanno nella pancia molti titoli dei paesi più a rischio. La spiegazione che darei a questo fenomeno non è tanto quella della potenza delle lobbies bancarie (la spiegazione dei “poteri forti”), quanto quella della persistenza delle mentalità (la spiegazione dell’”egemonia culturale”). Si pensa che i mercati finanziari siano in grado di autoregolarsi, dunque che non vadano toccati. Che siano in grado di produrre un’allocazione efficiente delle risorse, con le crisi descritte come eventi eccezionali, che, prima o poi, passano.
Aggiungerei una nota: se la ripresa fosse arrivata, i problemi sarebbero stati semplicemente spostati nel tempo. La ripresa, intanto, avrebbe rimesso in ordine le cose, per qualche tempo. La Grecia sarebbe cresciuta, le sue obbligazioni tornate di nuovo sane con le banche che le avevano in portafoglio. Invece, da qualche tempo si assiste ad un forte rallentamento della crescita, che riporta i complicati problemi dell’industria finanziaria alla ribalta.
*direttore della Lettera economica del Centro Einaudi