LEO-ARTHUR KELMENSON
(3 Gennaio 1927 – 6 Settembre 2011)
Geniale pubblicitario americano, nato a Manhattan, ed ex paracadutista nel Pacifico durante la Seconda guerra mondiale. È morto a Long Island, a casa sua, a 84 anni. Il sobborgo di Auburn Hills, a Detroit, Michigan, potrebbe ricordarlo come un suo personaggio storico. Lì, infatti, è la sede della Chrysler, e il primo epitaffio che Kelmenson si è meritato ha descritto il suo massimo risultato: “An advertising executive who helped to save the Chrysler Corporation”.
Ha aiutato a salvare la Chrysler con una campagna più che “creativa”, ricreatrice. E ha aiutato Lee Iacocca – già presidente silurato della Ford – a ridisegnarsi come “l’uomo della Chrysler”, e, in largo, come il marchio personale dell’industria americana dell’auto. Un tipo Vittorio Valletta, anzi un ruolo di quel genere, più che una consonanza di caratteri. Una foto, pubblicata dal New York Times, ritrae insieme Iacocca e Kelmenson, e sembrano due attori di genere di un film di cronaca non particolarmente truce su industria e potere: Iacocca, una specie di Ben Gazzara col mento in avanti, Kelmenson, un primo piano ironico, e arruffato ai lati da due fedine bianche, come un sociologo anni Sessanta. Anche se i fatti salienti risalgono al 1979, e dopo.
Quando Iacocca faceva carriera alla Ford, la casa automobilistica (la seconda, sul mercato americano, dopo la Chrysler) affidava a Kelmenson e alla sua società – la Kenyon & Eckhardt – il grosso delle campagne pubblicitarie e della ricerca degli inserzionisti. Erano diventati amici, lo sarebbero rimasti, e avrebbero condiviso, insieme, un passaggio e un massimo avversario, Henri Ford II. Ford era la proprietà, e un massiccio capitano d’industria vecchio stile, lucente di brillantina, e conosciuto nella café society anche per una bella ex moglie italiana, Maria Cristina Vettore Austin. Quando licenziò senza complimenti Iacocca, Kelmenson, senza l’ombra del dubbio, rinunciò, non richiesto di farlo, al contratto quasi esclusivo con la casa: si trattava di un volume d’affari di 75 milioni di dollari ogni anno. Era il 1979, con Jimmy Carter presidente, Leonid Breznev che lanciava l’Armata Rossa in Afghanistan, e tutti gli effetti, anche sui mercati, del travolgente cambio di potere in Iran. Secondo le regole della concorrenza (e quelle, meno automatiche, dell’amicizia in affari), Leo-Arthur Kelmenson passò i suoi servizi a Iacocca – diventato presidente della Chrysler – come unico agente pubblicitario. Ai due amici, con i loro due ruoli incrociati, si presentava un quadro più netto e più pericoloso dell’autoritarismo di Ford, e cioè la crisi della Chrysler con un’ipotizzata bancarotta. I conti tornavano sempre meno, la casa non riusciva più a pagare i fornitori e l’indotto, e Iacocca si faceva dare uno stipendio di un euro all’anno. Un colpo d’immagine, ma troppo teatrale. Ci volevano, come si dice, delle idee.
Le ebbe Leo-Arthur, a catena. E la catena doveva servire ad agganciare milioni di consumatori, il pubblico dell’auto, e il governo federale. Andò così. Una campagna televisiva con la domanda a martello «L’America sarebbe migliore senza la Chrysler?», ebbe i suoi effetti a Washington, con l’approvazione di un finanziamento statale di un miliardo e mezzo di dollari, nel 1980 (a ridosso del tempo di Ronald Reagan e della deregulation). Poi Kelmenson puntò sull’uomo e sulla sua immagine. Cioè su Iacocca, facilmente convinto a farsi vedere e intervistare a ripetizione, ricreato, o ancora meglio, da scoprire. E così, sugli schermi, il presidente della Chrysler, si mise a scorrazzare, risoluto ma non presuntuoso, con degli occhiali da aviatore, o indefesso in fabbrica, dicendo agli americani: «Se potete trovare un’auto migliore, compratela». Dove quell’auto poteva non essere una Chrysler (ma l’invito era evidentemente retorico), oppure non poteva che esserlo, una volta trovata. Senza difficoltà. Sembra un racconto di preistoria della storia dell’auto, ma si parla solo di trent’anni fa, quando il termine “pubblicità”, o “advertising” (non ancora rattrappito nella parola “brand”), poteva essere correlato all’acume di un’idea, e anche al rischio d’impresa. D’altronde, il mantra (così lo ha chiamato il New York Times) di Kelmenson era questo: “La pubblicità è il lubrificante del sistema della libera impresa”. Ci aggiungeva anche un altro passaggio, ricordato, per iscritto, dallo stesso Lee Iacocca: «Quando non avevamo i soldi per pagare, Leo chiedeva agli altri suoi clienti di contribuire. Con successo». Erano, fra gli altri, la Colgate-Palmolive, Air France, Seagram, Elizabeth Arden.
(Dal 10 Gugno 2009, la Chrysler fa parte del gruppo Fiat. Acquistata dopo un ultimo periodo di crisi, e d’imminenza di bancarotta. Questo non toglie valore allo sforzo, e alla forza d’immagine, e di sostanza, di Leo-Arthur Kelmenson, in quel frangente di “ricreazione”. E ricordare che in un sondaggio Gallup, alla fine di quegli anni, lui sia stato sistemato al terzo posto (dopo Ronald Reagan e Giovanni Paolo II) fra i “most respected Americans” del decennio, non suona solo “pubblicità”).
VANN NATH
(1946 – 5 Settembre 2011)
Pittore cambogiano, fra i più conosciuti e onorati, anche per un libro-testimonianza uscito nel 1998 con un titolo molto preciso: “A Cambodian Prison Portrait: One Year in the Khmer Rouge’s S-21 Prison”. Era nato a Battambang, nel Nord Ovest del Paese, aveva 66 anni, è morto a Pnom Penh per un’ infezione renale.
Nel più sconvolgente e originale film realizzato sul terrore khmer rosso, Vann Nath, alto, con una bella faccia e i capelli bianchi, dice anche questo: «Mi avevano parlato di Van Gogh e Picasso, ma non li conoscevo». L’informazione, quasi irreale per un pittore, decolora, per pochi secondi, la tensione di quel film (del 2004) che in realtà è uno psicodramma e un atto morale: si chiama S-21, il regista è Rithy Pan, e quella sigla corrispondeva a una casamatta sbrecciata ai bordi di Pnom Penh, trasformata, negli anni di Pol Pot, in un luogo di tortura ed eliminazione pianificate. In quella prigione sono state interrogate, tormentate, e uccise 17 mila persone. Il regista, girando nel vuoto di quelle stanze, ha riunito e messo a confronto un gruppo di ex torturatori con i tre scampati, fra i quali Vann Nath. Si sentono e si vedono racconti, gesti, e domande. Nessuna intervista, o deposizione, o confessione, da tribunale. Un quarantenne, che aveva poco più di 13 anni quando l’Anka, il partito totale, lo indottrinava, racconta di come «svuotava la memoria e la biografia» di una vittima, e poi picchiava, colpiva «nel vuoto», perché l’altro «non esisteva». Le giustificazioni si ripetono, a coppie uguali: «avevamo paura», «dovevamo eseguire gli ordini dell’Anka». Vann Nath fa domande deserte di perdono e di vendetta, poi spiega, e fa vedere, nel triplo ruolo di ex vittima, di testimone centrale, e di attore postumo. Potrebbe essere una “parte” nel teatro di Peter Brook. Che narra, senza recitare, del suo destino, cioè del suo scampo, e della sua fortuna: “risparmiato” perché, per caso, piaceva più di altri pittori come lui, eliminati dopo un’affrettata prova d’artista.
I tempi in cui Vann Nath «non conosceva Van Gogh e Picasso» erano promettenti e difficilissimi: aveva 19 anni nel 1965, era stato appena accettato in una scuola privata di pittura, era lontano da casa sua, e non aveva i soldi per comprarsi una bicicletta. Sua madre – separata dal marito – lavorava per lui e i suoi due fratelli, «diventando sempre più vecchia». Dopo due anni di scuola, Vann era in grado di mantenersi col suo lavoro. Volendo sintetizzare in un’immagine buddista, era un ciclo affaticato, ma che si chiudeva bene. In un altro, subito precedente, Vann Nath aveva avuto l’illuminazione: a 17 anni era entrato in una pagoda, come giovane monaco, e lì osservava «delle persone che dipingevano su un lato del muro del tempio». Avrebbe precisato che «in Cambogia, in ogni famiglia, non si usa non avere almeno un figlio che diventa monaco. Se non succede, è considerato disdicevole».
Il 7 Dicembre 1978 veniva arrestato dagli khmer rossi, poi spedito a lavorare in una risaia a Battambang, e poi ancora imprigionato con l’accusa di aver «violato il codice morale dell’organizzazione dell’Angka». Avrebbe spiegato, nelle sue memorie, di «non capire il significato di quell’accusa». Il ciclo subito successivo avrebbe sostanzialmente coinciso con la fortuna di aver scelto la pittura. E col caso, impuro, di piacere a chi si preparava ad ammazzarlo.
SALVATORE LICITRA
(10 Agosto 1968 – 5 Settembre 2011)
Tenore italiano, nato a Berna, figlio di emigrati ragusani, e cresciuto a Milano. Prima di studiare canto, perfezionandosi (in particolare a Parma e a Busseto con Carlo Bergonzi), aveva lavorato a Vogue, come grafico. Una voce definita anche “muscolare”, e con un “colore scuro”. Chiamato sommariamente, “il nuovo Pavarotti”, lo sostituiva a sorpresa, in Tosca (come Mario Cavaradossi), al Metropolitan di New York, nel maggio 2002: un debutto americano, che entusiasmò stabilmente gli americani anche negli anni successivi. Aveva 43 anni, è morto, per un incidente di moto, una Vespa, a Donnalucata, vicino a Catania: era senza casco, e un’ischemia gli ha fatto perdere il controllo della guida.
Non esiste, probabilmente, un’opera musicale contemporanea, anche di un solo atto, che si chiuda con la morte del protagonista per un incidente, come quello che ha segnato la fine di Salvatore Licitra.
Sarebbe un’idea, e anche un omaggio a lui. Una morte per caso, di un uomo giovane, che correva senza essersi protetto, nell’isola delle sue radici familiari. Soprattutto la vita breve, di un cantante molto bravo nel più popolare repertorio italiano: Verdi, Bellini, Puccini, Giordano, Leoncavallo, Mascagni. Le biografie, non solo post mortem, di un cantante d’opera, hanno, in genere, sparse fioriture di fatti scenici, o di aneddoti, più leggerini che sostanziali. Nel caso di Licitra è stato molto citato il caso del Trovatore d’apertura di stagione, alla Scala, nel Duemila: quando la cabaletta “Di quella pira” venne cantata senza il celebre Do sopracuto, perché Riccardo Muti, sonoramente disapprovato dal pubblico durante l’esecuzione, aveva dato a Licitra quella tassativa proibizione.
Entrando più nelle cose, e al massimo della sintesi, si può qui ricordare il suo catalogo: Un ballo in maschera, Il trovatore, La traviata, Ernani, Macbeth, Aida, Don Carlo, La forza del destino (tutte opere verdiane); un’unica Norma (Bellini); il Puccini di Tosca, Madama Butterfly, Il tabarro, Turandot, La fanciulla del West; e infine Cavalleria rusticana di Mascagni, Pagliacci di Leoncavallo, e Andrea Chénier di Giordano.Fra le sue interpretazioni migliori (ma il gusto è integralmente soggettivo), quella di Riccardo (Un ballo in maschera), Calaf (Turandot), Cavaradossi (Tosca), e Andrea Chénier.
Aveva un fisico e un viso “da tenore”: larghi, aperti, e, in certe foto, soprattutto di scorcio, con qualcosa, nel sorriso, che ricordava l’attore Edward. G. Robinson. Sembra che sia stata sua madre a spingerlo a prendere lezioni di musica: lui aveva 18 anni, e un giorno, lei, sentendolo cantare davanti alla radio, si convinceva e lo convinse.
Il quadro di questa settimana: ¿Qué te pasa buscador de tesoros? del pittore messicano Alfredo Castañeda, olio su tela, 1986.
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