Stato palestinese, a Gaza prevale l’indifferenza

Stato palestinese, a Gaza prevale l'indifferenza

A Gaza non sventoleranno le bandiere né circoleranno le t-shirt bianche dominate dalla scritta “Un-194”. Non sono previste manifestazioni di giubilo oggi, quando il presidente dell’Anp Abu Mazen presenterà al segretario generale Ban-Ki-Moon la richiesta di ammissione dello Stato palestinese al sistema delle Nazioni Unite. Le reazioni interne alla mossa diplomatica dell’ottuagenario leader oscillano tra sostegno ed indifferenza, confermando divisioni difficili da ricomporre, mentre Hamas bolla come inutile l’iniziativa di al Fatah.

Un sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research rivela che il sessantacinque per cento della popolazione, tra Gaza e West Bank, giudica positivamente il progetto di Abu Mazen. Eppure la mappa dei consensi all’iniziativa di Abu Mazen appare piuttosto variegata e coincide sostanzialmente con quella dello sviluppo economico-sociale, dei progressi o, al contrario, dello stallo nel processo di nation building.

In quella Cisgiordania in cui il primo ministro nominato da Abu Mazen, Salem Fayyad, ha creato un embrione di infrastrutture e servizi, promuovendo la crescita autoctona e riducendo la dipendenza dagli aiuti internazionali, la mossa newyorchese viene salutata con favore. Nella zona della West Bank direttamente amministrata dall’Anp, la cosiddetta “Area A”, il messaggio inviato al Palazzo di Vetro appare come una mossa obbligata, dettata dall’immobilità di negoziati in cui il premier israeliano Netanyahu, condizionato dai falchi del suo schieramento, come il ministro degli Esteri Lieberman, mostra di non credere più.

D’altronde, nella moderna Ramallah, in cui fioriscono alberghi di lusso e centri commerciali, non è difficile immaginare la costruzione di uno Stato. Nell’Area C, viceversa, dove le bandiere militari israeliane sventolano accanto agli insediamenti dei coloni, la scadenza del 23 settembre non scalda le anime e i cuori. Quello di Abu Mazen, dicono, sarà un esercizio retorico e nulla più. Anzi, gli effetti potrebbero essere addirittura negativi, gettando ulteriore benzina sul fuoco delle tensioni tra le due comunità.

A Gaza, poi, prevale l’indifferenza. L’accordo siglato da Hamas e al Fatah lo scorso aprile al Cairo, volta alla formazione di un governo di unità nazionale che portasse alle elezioni, è rimasto lettera morta. Il piano di Abu Mazen è anche una conseguenza di questo fallimento. Nella Striscia, quindi, si guarda non tanto a New York quanto alla ricerca di un’intesa tra le due leadership palestinesi.

Chi considera la mossa all’Onu un diversivo è certamente Hamas, che ha prontamente condannato l’iniziativa dell’Anp attraverso il proprio portavoce, Sami Abu Zuhr: «È un passo meramente cosmetico che non porterà alcun risultato utile per il nostro popolo». D’altronde, malgrado alcune recenti aperture, la carta costitutiva del movimento islamista proclama ancora quale obiettivo ultimo la distruzione di Israele e il sostegno al piano newyorchese implicherebbe l’accettazione dello Stato ebraico e la fine del sogno della “Grande Palestina”. Il pensiero del premier Ismail Haniyeh non ammette dubbi interpretativi: «Al Fatah non può sacrificare il diritto dei palestinesi e fare concessioni sulla nostra terra».

Sparigliando le carte, Abu Mazen ha ottenuto l’effetto di mettere a nudo la posizione della controparte palestinese, che adesso si trova, paradossalmente, sulle stesse posizioni dei nemici storici, Stati Uniti ed Israele, uniti nel denunciare un atto “unilaterale”. Gli artifici retorici di Haniyeh, secondo il quale l’opposizione del movimento islamista al progetto dell’Anp «è basata sul desiderio di proteggere i palestinesi», mentre Washington e Gerusalemme “intendono violarne i diritti” non bastano a mascherare il nervosismo e l’imbarazzo di chi gestisce Gaza da quattro anni, senza che né la causa palestinese né le condizioni di vita nella Striscia, colpita da un pesante embargo, ne abbiano tratto giovamento.

Hamas lamenta di non essere stata consultata e ammonisce al Fatah sui rischi connessi ad un’operazione politica che mette in angolo le questioni più scottanti, in primo luogo il diritto al ritorno dei rifugiati. La branca del movimento di stanza in Siria, il cosiddetto “gruppo di Damasco”, guidato da Khaled Meshal, condivide la linea della leadership di Gaza: «La richiesta fatta all’Onu è un ulteriore passo sulla strada del compromesso da parte di al Fatah, che insiste sullo strumento del dialogo, mentre dovrebbe perseguire il cammino della resistenza e della lotta politica».

A Gaza si moltiplicano gli incontri e i seminari organizzati dagli islamisti per guidare la battaglia retorica contro l’iniziativa newyorchese. Si paventano i rischi di un atteggiamento considerato accondiscendente, che segnerà la fine della causa nazionale. E, sotto traccia, si spera in un fallimento del piano dell’Anp. Akram Atallah, analista politico palestinese, non ha dubbi: «Se Abu Mazen non riesce nel suo intento, Hamas sarà più forte di prima. Per al Fatah è l’ultima possibilità. In caso di sconfitta, qualsiasi possibilità di negoziato con Israele verrebbe sepolta». La mossa del cavallo tentata dall’anziano leader è rivolta alla due controparti, quella esterna e quella interna. E i suoi esiti, che siano un improbabile successo totale, una possibile vittoria parziale in Assemblea Generale o uno scacco assoluto, saranno tanto simbolici quanto reali.

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