Tarantini, schianto di un furbetto della sanità pugliese

Tarantini, schianto di un furbetto della sanità pugliese

«A vent’anni stavo in barca da D’Alema e a trenta stavo a dormire a casa di Berlusconi». È sempre lui. È Gianpaolo Tarantini che parla. Lo fa al telefono col direttore de “L’Avanti!”, Valter Lavitola. Gianpi spiega di che pasta è fatto in diverse telefonate intercettate dalla procura di Napoli nell’ambito dell’inchiesta sulla tentata estorsione ai danni di Berlusconi. Alla cornetta c’è il suo stile di vita, ci sono i soldi che gli servono per campare un anno. E ci sono pure le preoccupazioni per la famiglia, a cominciare dalla madre alla quale, si legge nelle carte, il “re delle protesi” vorrebbe dare due o trecentomila euro dai suoi affari milionari. Poi, come ovvio, c’è anche Lavitola che, tra le altre cose, gli consiglia pure che con tutti quei soldi è meglio «fare un’attività». Rileggendo l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli, Amelia Primavera, la vicenda Tarantini appare per certi versi la vecchia favola di Esopo: c’è la cicala, Tarantini, e la formica, l’amico Valter.

Ma le informative della Digos depositate ai pm napoletani dimostrano in qualche modo che in tutta questa complessa storia la cicala barese fa entrambe le cose: frinisce per attirare l’attenzione delle donne (poi comparse nelle feste di Palazzo Grazioli) e nello stesso tempo lavora (o lavorava?) nel business della sanità pugliese, la genesi di tutte le inchieste da cui son saltati fuori pure nomi eccellenti, da Eni a Finmeccanica. Ma questa è un’altra storia che, tra una conversazione captata e l’altra, sfiorerebbe anche gli appalti della Regione.

La favola del Tarantini inizia a casa sua, in Puglia. Come? Lo ricostruiscono in buona parte i magistrati baresi che indagano sui presunti illeciti nella sanità regionale, a partire soprattutto dalla gestione della più grande azienda sanitaria locale d’Italia, la Asl di Bari. Nell’analizzare il risiko degli affari dell’imprenditore barese e la caterva di intercettazioni telefoniche (anche di oltre dieci anni fa), nel capoluogo pugliese i magistrati fanno riferimento alla volontà di Gianpaolo di “dividersi il mercato regionale per aree commerciali” con altri imprenditori del settore senza alcun concorrente. Un “regime di monopolio” non con imprenditori qualsiasi: gli affari andavano, per la procura di Bari, in parallelo con Carlo e Giuseppe Tedesco, figli del senatore Alberto (Pd) che, per gli stessi magistrati, deve rispondere dei reati di concussione, abuso d’ufficio, turbativa d’asta e associazione a delinquere (riconosciuta dal Riesame contro la decisione del gip).

La divisione del mercato delle protesi ortopediche e di altro materiale sanitario è nell’ordinanza di custodia cautelare emessa nel febbraio scorso dal gip del Tribunale di Bari, Giuseppe De Benedictis, proprio nei confronti di Tedesco: la fornitura agli ospedali pubblici e privati del Salento, stando alle carte, sarebbero finiti nell’orbita della Medical Surgery di Giuseppe Tedesco, il resto invece sarebbe stato terreno di conquista delle aziende di Tarantini, la Global System Hospital e l’azienda madre di famiglia, la Tecno Hospital. Dal ’98 al 2004 a Bari e nel resto della regione ci sarebbero stati «precisi accordi commerciali», almeno questa è la ricostruzione del gip: la Tecno Hospital produceva gli impianti di protesi, l’azienda di Tedesco le vendeva in esclusiva. Tutto materiale – è scritto nello stesso provvedimento – da far utilizzare poi nei nosocomi per mano di cosiddetti «primariucci compiacenti da comandare a bacchetta» in cambio, secondo l’accusa, di viaggi, rimborsi spese, partecipazioni a congressi e “altro” (…).

In mezzo anche il controllo delle gare d’appalto attraverso «collusioni col personale del management sanitario» e in particolare – si legge nell’ordinanza – con la “pressione politica” di Alberto Tedesco sui dirigenti e primari. Il risultato? «Un sistema sanitario regionale inquinato da interessi imprenditoriali ma anche squisitamente politici». Già nel 2003 però, ha spiegato il gip, i due imprenditori iniziano a pestarsi i piedi nello stesso settore commerciale. Tant’è che Alberto Tedesco appella i Tarantini come «i più feroci concorrenti dei miei figli». È crack nel 2004: il rapporto si rompe e, per De Benedictis, inizia una «fortissima concorrenza». Da quel momento poi, stando anche ad altre inchieste, gli strumenti per arrivare agli appalti si intreccerebbero con escort e soldi. Il costo delle protesi è importante. Soprattutto in relazione al bilancio 2007 della Tecno Hospital. Qualcosina si potrebbe intuire da una intercettazione del 2002 tra Gianpi e Giuseppe Tedesco. Tarantini al telefono: «Senti Giusè’ (Tedesco, ndr) vedi che ieri C.(ex primario ortopedico all’ospedale di Barletta, ndr), allora ha fatto quella riunione con…hanno imposto i prezzi, hanno firmato tutti quanti una delibera, dove i pre…allora ti dico l’arto di ginocchio non deve costare più di 4.400 euro, l’anca 4.000 euro e l’endoprotesi 1.400 euro…Tedesco:- Sì, sì!…sì, sì»

Nel 2002 la TH fatturava 1,8 milioni, cinque anni dopo la nuova Tecno Hospital di Tattoli srl (dopo che i Tarantini cedono le loro quote alla madre) i milioni arrivavano a 6,3. Il tutto, stando alla ricostruzione della Procura di Bari, mentre negli ospedali regionali si stava facendo strada una gestione “particolare” della sanità pubblica. Come funzionava? Carta e penna: dichiarazione di infungibilità. In altre parole, senza gare d’appalto, un medico Asl dichiarava di aver bisogno non di un modello di protesi qualsiasi, ma di una tipologia prodotta da una precisa ditta, con tanto di nome e cognome. Dalle protesi mammarie all’endoprotesi, dalle lentine per la cataratta ai defibrillatori. Ai piani alti delle dirigenze sanitarie, stando alle carte, non sarebbe cambiato nulla. O quasi.

Un mercato molto attivo. Le cifre ufficiali dell’Osservatorio epidemiologico della Regione Puglia parlano chiaro: nel 2010 solo le protesi d’anca hanno toccato quota 4178, cioè almeno 10 interventi ogni 10mila abitanti, anche se ogni territorio storicamente ha e avrà una propria spesa. Ma, ad esempio, è nella Asl di Bari che si impianta quasi la metà delle protesi, ginocchio incluso. Numeri più o meno costanti, considerando che nel 2001-2002 (quando i magistrati aprono le inchieste) i numeri stanno sotto le 3.500 operazioni (rispettivamente 3117 e 3390). Ma gli inquirenti, si sa, avrebbero passato al setaccio anche le dichiarazioni di infungibilità nell’ex Asl Ba/5 (Putignano, Conversano e Monopoli). Da giugno 2010, di fatto, Tarantini non lavora più. «Incontro notevoli difficoltà a rientrare nel mondo del lavoro» ha scritto nel memoriale sottoscritto il 31 agosto 2011. Il Tribunale di Bari prima e la Corte d’Appello Fallimentare poi (sentenza del febbraio scorso) hanno, infatti, dichiarato fallita la Tecno Hospital da cui si tira fuori nel 2008. Così, come lui stesso ammette, dall’autunno scorso riceve da Berlusconi, tramite l’ufficio di Lavitola a Roma, «circa 20mila euro al mese (oltre ad altre somme per far fronte ad esigenze extra) fino al mese di luglio». In tempi di crisi, parlamentari a parte, 20mila euro al mese non sono patatine. Tarantini però precisa: «L’importo mi serve effettivamente per esigenze di vita, perché a mio carico, oltre alla mia famiglia, composta da moglie e due bambine (…), vi è quella di mio fratello, composta da moglie e figlio, nonché la mia anziana madre vedova». Ci sono, aggiunge, anche «numerosi debiti personali lasciati a Bari che non ho potuto onorare in quanto dopo la mia misura cautelare non ho più avuto le disponibilità economiche».

Stando alla ricostruzione dello stesso Tarantini, a marzo 2011 quando ancora continuava ad incassare gli euro dal premier, Gianpi chiede invano a Berlusconi un ulteriore finanziamento di 500mila euro per tornare a lavorare. «Il mio nome – è scritto nel memoriale – non era più spendibile specie nel mio settore in quanto accusatore di vari dirigenti pubblici di Asl».
Ad agosto scorso la Tecno Hospital ricorre in Cassazione contro il fallimento confermato in appello. Due gradi di giudizio che hanno accertato più di un milione di euro di debiti e, tra l’altro, con 14 dipendenti rimasti senza lavoro. La cicala Gianpi.  

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