Ogni tanto è necessario alzare la testa, guardare un po’ più in là. Oltre lo stillicidio di rivelazioni, intercettazioni, dichiarazioni “dejà vu”. Oltre le autorizzazioni a procedere per ministri in odor di mafia negate grazie al voto padano dei leghisti. L’asfittica a tattica parlamentare e le cronache di giornata non devono farci perdere di vista il dato centrale: sta arrivando ad ampi passi un cambiamento epocale. Si sta infatti sgretolando la stagione politica di Silvio Berlusconi, uno dei più importanti uomini politici della storia italiana, mentre la più grave crisi economica degli ultimi decenni infierisce. Su di un paese, il nostro, sprovvisto di una classe dirigente politica degna di questo nome.
Quando scricchiola un potere forte e pervasivo, che detiene le redini del governo nazionale da un decennio quasi ininterrotto e invade gli immaginari da ben di più, succedono diverse cose. La prima: gli oppositori, anche i più diversi tra loro, si coalizzano. Succede anche oggi, da noi? In un certo senso sì: basti pensare all’accordo tra la Confindustria di Emma Marcegaglia e la Cgil di Susanna Camusso, volto a smussare il potenziale innovativo dell’art. 8 sui licenziamenti. Interessi diversi, a prima vista incompatibili, convergono su un obiettivo politico comune: isolare e indebolire ancora di più un governo appeso a un filo. Dopo prenderanno strade diverse, ma al momento hanno una priorità comune.
Ancora, quando un potere lungo, pervasivo e caratterizzato da una storica capacità di vincere le elezioni inizia a scongelarsi, succedono anche altre cose: ad esempio, capita che in molti vedano una spazio politico per sé. Su La Stampa di ieri venivano definiti i “riservisti”: sono Luca Cordero di Montezemolo, Alessandro Profumo, la stessa Emma Marcegaglia, il consigliere delegato di Intesa Sanpaolo Corrado Passera. Senza dimenticare Mario Monti, o Romano Prodi che riserva della Repubblica, per la verità, lo è davvero.
Se e quando decideranno davvero per una discesa in campo, tutti loro avranno davanti e attorno un sistema che pure porta tutti i segni del ciclo politico berlusconiano che va concludendosi.
Con il partito conservatore, il Pdl, che dovrà provare a sopravvivere al fondatore e alle faide territoriali e correntizie. Con il partito del Nord, la Lega, messo di fronte a squilibri tra nord e sud più forti di prima, e in crisi di credibilità per poterli ancora rappresentare. Con il principale partito di opposizione, il Partito Democratico, sospeso tra la storica vocazione (o tentazione) all’egemonia e l’amara scoperta che esiste davvero solo quando segue a ruota le pulsioni giustizialiste o demagogiche che rischiano prima o poi di travolgerlo. Con i centristi di Casini sempre ben piazzati dal punto di vista tattico, ma chiamati alla sfida più dura: mettersi in posizione di forza per ereditare il consenso di un paese che, in ogni caso, è da sempre conservatore. Con una grossa amalgama di indignati che mischiano antiberlusconismo militanti e furore anti-Casta che rifiuta ogni distinguo: votano diversi partiti, o non votano più da un pezzo, ma sono tanti, e sempre di più. Esprimono una sensazione innegabilmente fondata: l’intero arco costituzionale italiano è lontano dal paese, non ne conosce più la lingua.
Tutto attorno, fuori e lontano dal palazzo romano, c’è infatti un paese che ha paura del futuro, e ne ha molte ragioni. C’è un sistema di imprese che credeva di avere visto il peggio negli anni scorsi, e scopre oggi che al peggio non c’è ancora fine. Chiede credito in banca, e non lo trova e non è sempre e solo colpa delle banche, se per gli istituti di credito italiani finanziari il rischio di chi investe costa tanto di più rispetto ai competitor tedeschi o francesi. Ci sono migliaia e migliaia di giovani professionisti, consulenti, manager, lavoratori della conoscenza che si sentono oppressi da un fisco iniquo e ostile. C’è la burocrazia che è una vera e propria tassa occulta sulla crescita: perché rallenta i processi produttivi del sistema economico, da un lato, e contribuisce in modo importante a una spesa pubblica che batte i record del primo mondo. C’è un mondo del lavoro che è cambiato sull’onda di spinte globali e che, nell’insicurezza generale, ha dovuto confrontarsi anche con la sfida simbolica della manodopera immigrata. Non è certo servita una propaganda leghista né le leggi (sbagliate) che essa ha generato a migliorare la vita di tutti, né a restituire sicurezza ai ceti più deboli. C’è un sistema giuridico che si fonda su centinaia di leggi contraddittorie e una macchina giudiziaria lenta e inefficiente, che spaventa le imprese italiane e terrorizza gli investitori esteri. Ci sono insomma tutti i guai di cui il berlusconismo aveva promesso di essere la cura, e invece ha funzionato come un incubatore della malattia.
Ci sono insomma tanti ingredienti per la rivolta, ma anche tante sfide per chi abbia passione per quella cosa, complessa e bellissima, che si chiama politica. È ora di farne l’elogio, di predicarne le virtù, e poi di incarnarle: senza personalismi, ma con personalità. Il paese ha bisogno di questo, più di quanto la rabbia esplosiva, che circola e giganteggia, riesca a raccontare. È un elogio scomodo, oggi che politica fa rima con casta e sarà anche peggio nel prossimo futuro, quando sarà doveroso scegliere sacrifici, rinunce e rigore. Ma è doveroso resituire l’amministrazione democratica della cosa pubblica al posto che le spetta.