Se «Il calcio è una scienza da amare», antica fatica letteraria di Walter Veltroni (la migliore, essendone “solo” curatore, 1982, Savelli editore, introvabile se non su eBay), sarà inevitabile analizzare il crollo dell’A.C. Milan deponendone il corpo senza vita sull’algido tavolone della morgue. Per averne, di ritorno, due immediate percezioni: mentre la squadra viene sfregiata senza un minimo di pietà da avventurosi bianconeri in vena di cattiverie, il Suo presidente sta vivendo il momento più delicato (e doloroso) di una straordinaria carriera politica. Solo una sfortunata coincidenza o non, piuttosto, l’ideale contesto per ricondurre tutti i destini sotto un’unica volta celeste?
Non pochi tifosi rossoneri, ieri notte, mentre l’Allegri-society cadeva ignobilmente sotto i colpi di abili muratori con voglia di polenta, hanno rivolto un pensiero assai poco devoto al talentino brasiliano dai muscoli di cristallo, ora sotto teca per complesse analisi tecnico-sentimentali. Nella pochade rossonera, in cui il piccolo Pato cade regolarmente sotto i colpi di qualche infortunio, la figlia del Capo assume il ruolo di protagonista femminile e sembrerebbe per lo meno ingenuo distinguere troppo i destini della coppia, mentre invece un’analisi neppure troppo superficiale porterebbe a concludere che i due sono un corpo e un’anima sola sia dentro che fuori dal campo.
Ciò peraltro non risulterebbe dalle nostre gazzette sportive o anche dalle cronache dei quotidiani generalisti, dove invece l’influenza di Barbara sul piccolo sarebbe nulla o del tutto trascurabile, in aperto contrasto con l’antico adagio letterario, sempre caro al racconto calcistico, secondo cui un giovanotto nelle mani della figlia del capo-azienda sarebbe grandemente turbato – e turbate le sue evoluzioni sul campo – da un rapporto così impegnativo e appassionato.
Ce ne sarebbero millanta di storie così, tutte illustrate e strapazzate dai giornali in lungo e in largo nel corso degli anni, ma giusto per ricorrere a ricordi personali basterà citare il più grande rossonero di sempre, ancorchè il migliore italiano del dopoguerra, e cioè Gianni Rivera, che si innamorò di una bellissima hostess dell’Alitalia di origine greca, Irene Zarpanely. Il trambusto giornalistico assunse i tratti di una piccola rivoluzione calcistica, attribuendo al paròn Rocco l’intenzione di far troncare quel rapporto perché il ragazzo non gli giocava più. Appena un anno fa, incontrando la signora Zarpanely ancora bellissima, troppo curioso gliene chiesi conferma. Con un sorriso lieve e comprensivo, smentì quelle dicerie: «Anzi, Rocco con noi fu sempre molto, molto carino».
Per tornare a qualcosa che rassomigli a una questione tecnico-tattica, basterà riavvolgere il nastro di qualche ora e rivedersi l’orribilità della notte appena passata. Fantasmi che camminano allo Juventus stadium, esili figurine di cartapesta contro mostri alabardati, scheletrini di cristallo impiantati sulla pelouse, in una parola: la squadra che non c’è. Ma che, sempre per i gazzettieri, doveva rivincere lo scudetto a mani basse.
Ecco lo scudetto. L’equivoco è proprio considerare lo scudetto una conquista di cui inorgoglirsi. E questa, badate bene, non è una squallida provocazione dello scrivente. No. È più semplicemente l’educazione economico-sentimentale alla quale ci ha abituato in tutti questi anni Adriano Galliani, raccontandoci che soltanto le scorribande in Europa potevano dare lignaggio e casse piene, distribuendo patenti di grandezza solo fuori dai patrii confini, arrivando a immaginare un meraviglioso campionato d’Europa depurato da tutti gli invadenti Cesena che vogliono partecipare al pranzo di gala. Disegnando, insomma, quel Milan che per molti anni è stato ai vertici del calcio mondiale.
Un atteggiamento discriminatorio, una sorta di razzismo calcistico che non poteva che produrre tempesta, dentro e fuori la società. Considerare quasi con disprezzo, se non altro con gelido distacco, gli scudetti degli altri, sostanzialmente gli scudetti dell’Inter (quelli di Mancini soprattutto), apriva la strada – e il giorno è amaramente arrivato – a un crudele contrappasso di ritorno, potendosi oggi solo arrampicare, il Milan, nella scalata nostrana del campionatuccio italiano. È un rischio che Galliani non avrebbe dovuto correre: il sentirsi troppo superiore per tanti, troppi anni, oggi (che non è profeta in patria) gli costa un bilancio troppo amaro, in termini di umiliazioni, di sofferenza e di dileggio.
Ma come è stato possibile che i rossoneri siano tornati marginali in Europa, dopo i molti anni passati ai vertici? Qui andrebbero riesaminati i percorsi politici del Capo azienda, ma per quello vi rimanderemmo a tutto ciò che Linkiesta ha scritto di serio in questi mesi su Berlusconi. Si dirà: è la congiuntura economica e bisogna adeguarsi. No. C’è prima un fatto di mentalità e per una volta Inter e Milan sono accomunati da colpa grave: la cessione del numero uno. A distanza di qualche tempo, hanno ceduto il migliore per fare un po’ di cassa – l’uno Kakà, l’altro Eto’o – inconcepibile in una sana organizzazione calcistica, che basa le sue fortune sulla bravura dei giocatori, non degli analisti di Borsa. Qualche sprovveduto dirà: ma Kakà al Real ha avuto solo guai, il colpaccio vero lo ha fatto Galliani. Ridicolezze senza senso, guardarsi Kakà adesso, please. Quando il Barcellona si privò di Ibra, le motivazioni furono innanzitutto tecniche. Se chi si considera migliore cede i suoi migliori solo per rimpinguare il portafogli, tutto è banalissima conseguenza.
Una sola tessera, oggi ritorna al suo posto: il Milan è di nuovo un po’ casciavit.