Il Pdl, si dice spesso, è un partito monolitico e chiuso al dissenso, che non tollera voci critiche o comportamenti difformi. E il Pd? Sicuri che il principale partito di opposizione non soffra a sua volta di un analogo cattivo costume politico, che lo porta a censurare chiunque si muova al suo interno con troppa autonomia e a minacciare ogni volta provvedimenti disciplinari e espulsioni contro i reprobi del momento?
Intendiamoci, il Pdl è un caso forse unico al mondo di partito personale: non perché sia guidato da un leader talmente carismatico da non essere mai messo in discussione dai suoi sottoposti qualunque cosa faccia o dica, ma nel senso che è una vera e propria proprietà privata. Berlusconi è il padrone del Pdl, come prima lo era di Forza Italia, e chi non è d’accordo con lui può tranquillamente andarsene. Punto.
Il Pd, ovviamente e fortunatamente, è cosa diversa. Èun’aggregazione di forze piuttosto composite (che è poi la ragione della sua relativa debolezza) che nel corso della sua breve vita ha trovato un punto di equilibrio tra di esse nella figura di un segretario – prima Veltroni ora Bersani – eletto dopo un fisiologico scontro interno e un regolare procedimento elettorale. Nel Pd c’è un capo politico a scadenza, ma non un padrone assoluto che aspira all’eternità.
E tuttavia anche in questo partito – che da tempo si va proponendo come alternativa radicale al berlusconismo, sul piano politico e del costume – sembrano talvolta affiorare atteggiamenti e comportamenti che è difficile definire altrimenti che come “berlusconiani”. Come il Cavaliere non sopporta di essere contestato o pubblicamente criticato (chiedere a Fini che fine fanno coloro che ci hanno provato…), così anche il vertice del Pd, a partire da Bersani, diventa impaziente, scontroso e minaccioso quando qualcuno ha l’ardire di porsi in contrasto con la linea ufficiale del partito.
Ricordate le contumelie che piovvero sulla povera Paola Binetti a causa delle sue posizioni giudicate dai vertici democratici eccessivamente bigotte e integraliste in materia di bioetica e diritti civili? Il risultato fu che la Binetti, messa alle corde, transitò nelle fila dell’Udc di Casini. E ricordate il fastidio con il quale sono stati accolti gli inviti di Matteo Renzi – in effetti espressi in modo piuttosto rude e pittoresco – a “rottamare” la vecchia nomenclatura della sinistra democratica per fare posto a facce nuove? Renzi, diversamente dalla Binetti, è ancora nel Pd, ma quel gesto di rivolta non gli è ancora stato perdonato: più che una risorsa, lo si considera un rompiscatole di professione, uno da sopportare a denti stretti.
Da ultimo, è toccato ai radicali – una cui pattuglia, come si ricorderà, è stata eletta nel 2008 nelle fila del Pd dopo aver stretto un accordo con Veltroni – entrare in urto con il partito che li ospita e con il quale, sino ad oggi, hanno lealmente condiviso la battaglia contro il governo Berlusconi. Se Renzi è un rompiscatole, i radicali lo sono al cubo, da sempre. È il loro marchio di fabbrica, ma anche ciò che li ha sempre resi unici, originali e in certi momenti persino indispensabili nel panorama politico nazionale. Imbrigliarli non è facile, ma forse nemmeno utile, come sta sperimentando a proprie spese un Pd forse un po’ troppo ingeneroso nei loro confronti.
Qualche settimana fa, diversamente dalle indicazioni del partito, invocando il loro storico garantismo, non hanno votato la sfiducia contro il ministro dell’Agricoltura Saverio Romano. In quell’occasione, Bersani giudicò la loro decisione “incomprensibile e intollerabile”, e minacciò la loro espulsione in massa (si fa per dire, visto che sono soltanto in sei).
L’altro giorno, mentre tutta l’opposizione si era simbolicamente ritirata su un Aventino immaginario, sono rimasti in aula ad ascoltare, per rispetto alle istituzioni, l’intervento di Berlusconi. In questa occasione, hanno preferito giocare d’anticipo, e prima che arrivassero reprimende e minacce si sono autosospesi dal gruppo parlamentare. Ieri, infine, l’ultimo strappo: entrando in aula a votare sulla fiducia hanno fatto saltare la strategia – in verità piuttosto cervellotica – messa a punto dall’opposizione, che puntava a far mancare il numero legale in aula e a dimostrare, in questo modo, che l’esecutivo era privo di una maggioranza.
I radicali, come si sa, non fanno parte integrante del Pd. Costituiscono un partito a sé. E chissà che non sia questa la ragione dei loro distinguo degli ultimi tempi: cercano visibilità, come forza politica autonoma, nella prospettiva delle prossime elezioni politiche (che tutti ormai danno come anticipate la prossima primavera). Ma bastano i loro comportamenti eccentrici e forse all’insegna di un’eccessiva autonomia per farli considerare, addirittura, un corpo estraneo al blocco politico nel quale sono stati eletti, sino a minacciare nei loro confronti sanzioni e provvedimenti disciplinari? E si può, come si è fatto in questi giorni, prendere pretesto da tali comportamenti per far scendere su di loro l’ombra del sospetto più grave e infamante: quello di tradimento e di intelligenza col nemico? Davvero si pensa che i radicali eletti in Parlamento con i voti della sinistra stiano per andare in soccorso di Berlusconi?
Per un grande partito come il Pd forse sarebbe più facile, e politicamente più opportuno, accettare i radicali al loro interno per quel che sono, considerarli un lievito critico, uno stimolo dialettico, una costola libertaria in mezzo a tanti ex-comunisti e ex democristiani ancora troppo legati a vecchi schemi mentali, invece che un ingombro da rimuovere o personalità delle quali diffidare. L’idea che in un partito – e dunque anche nelle scelte parlamentari di quest’ultimo – ci si debba muovere con disciplina ferrea e militaresca, senza che a nessuno sia concesso di decidere con la propria testa, appartiene al passato. Ovvero appartiene, nel presente, al solo Berlusconi. Che senso ha combattere il Cavaliere e poi comportarsi come lui quando si tratta di fare i conti con una piccola minoranza dissidente?