Trasparenza e Merito. L'università che vogliamoChiesa e Ici, arriva l’emendamento del governo Monti

Chiesa e Ici, arriva l’emendamento del governo Monti

Dei presunti privilegi che la Chiesa godrebbe nei confronti dello Stato si sente spesso parlare. È un po’ come una specie di leggenda metropolitana, tramandata di bocca in bocca da molta gente. Soprattutto in questi difficili mesi di crisi economica, in cui il governo chiede sacrifici a tutti, l’argomento dei privilegi ecclesiastici è tornato di moda e infiamma gli animi dei cittadini, non più dei soliti anticlericali, ma anche quelli di osservatori abitualmente ben più pacati.
Cosa siano i Patti Lateranensi è molto probabile che, anche per sentito dire, la maggior parte degli Italiani lo sappia. In cosa consistano realmente, a quali rapporti e relazioni tra Stato e Chiesa diano vita, invece, sono quesiti pressoché sconosciuti ai più, noti solo a qualche vecchio studioso e a pochi, interessati, addetti ai lavori. Per provare a fare un discorso aperto, a tutto tondo, non ideologico, sul Concordato, occorre rifarsi, come quasi sempre accade, alla storia e fornire dati comparativi. Possibilmente, partire dai precedenti, cioè dal considerare quale fosse la situazione che caratterizzava i rapporti tra lo Stato e la Chiesa nell’Ottocento, prima dell’Unità d’Italia. Proviamo a farlo sinteticamente.

Ancora nell’Ottocento, la Chiesa provvedeva ai propri “bisogni” con un sistema di autofinanziamento, avendo un diritto di decima. Essa fruiva di donazioni, lasciti, ed era ricca al punto da non necessitare di aiuti da parte dello Stato. La sua presenza nella società era enorme: basti pensare anche solo al fatto che i servizi sociali, di assistenza e di istruzione, non erano forniti dai “piccoli” stati italiani ma erano gestiti dalla “grande” Chiesa.

Con l’Unità d’Italia, lo Stato italiano prende in mano tutti questi servizi, ma con essi anche le rendite in base alle quali la Chiesa esercitava quei compiti. Questo meccanismo mise la Chiesa in condizioni di maggiore difficoltà sotto il profilo patrimoniale. Le parti si erano dunque invertite: se prima lo Stato si serviva della Chiesa per supplire alle proprie carenze, da quel momento in poi fu la Chiesa a doversi appoggiare alle strutture pubbliche per poter esercitare, grazie al suo aiuto, alcuni dei suoi precedenti compiti. Ci furono confische, espropri, passaggi di beni e denaro a favore dello Stato.

Si giunse dunque al Concordato, con questo retroterra che non va dimenticato. Mussolini, firmando il famoso accordo nel 1929, davanti al cardinal Gasparri in rappresentanza di Pio XI, garantiva alla Chiesa la libertà e l’indipendenza del suo governo spirituale, stabiliva che lo Stato pagasse una enorme somma di denaro come risarcimento, concedendole una zona del suo territorio, il Vaticano, ammetteva il matrimonio cattolico e l’insegnamento religioso nelle scuole, riconoscendo giuridicamente gli ordini religiosi e concedendo alcuni privilegi ai membri del clero. In particolare, confermava la congrua, cioè che lo Stato si accollasse una parte dello stipendio dei sacerdoti, per giungere, infine, a concedere un vero e proprio stipendio statale a quei preti che svolgessero funzioni pubbliche, come nell’esercito o nelle scuole (ancora oggi, peraltro, sono scelti dalle diocesi ma assunti e retribuiti dalle regioni o dallo Stato).

Dopo la fine del fascismo e la nascita della Repubblica, tutti i partiti furono sostanzialmente d’accordo nell’evitare di chiedere la denuncia degli accordi lateranensi. Per i leader dei principali partiti bastò inserire in un articolo della Costituzione, il famigerato articolo 7, un riferimento preciso alla continuità sulla questione del Concordato. L’impressione, ormai consolidata dalla storiografia, è che la Dc, poco interessata a questioni culturali e religiose, dovesse, in qualche modo, restituire il favore dell’appoggio fornito dalla Chiesa alle elezioni, mentre i comunisti, per mantenere la pace religiosa nel paese, non avessero alcuna voglia di imboccare la via dell’anticlericalismo. I socialisti affermarono addirittura che anche la più piccola delle riforme agrarie interessasse loro più della revisione del Concordato. All’assemblea costituente, infatti, solo una sparuta minoranza, qualche ex azionista e qualche cristiano-sociale, aveva osato protestare. Nient’altro.

Il problema in sostanza venne accantonato per più di un decennio, fino a quando non fu riproposto dalla rivista il Mondo (quella di Ernesto Rossi, per intenderci) in occasione di un convegno, organizzato nell’aprile 1957. In quell’occasione fu lanciata la prima proposta pubblica di abrogazione del Concordato, suscitando ovviamente forti proteste nel mondo cattolico.
La questione veniva nuovamente messa a tacere, per essere ripresa negli anni Sessanta, dal nascente movimento dei radicali di Pannella. Il vento della secolarizzazione iniziava a spirare e preannunciava le storiche battaglie sui diritti civili. Ne era passata, d’altronde, di acqua sotto i ponti e da “oltre Tevere”, qualcuno “in alto”, aveva iniziato a capire che con lo Stato era forse giunto il momento di trattare.

Sondaggi e opinioni a parte, le forze politiche, ancora negli anni Settanta, non erano affatto convinte di volersi impelagare in una sorta di battaglia campale contro la Chiesa e preferivano impegnare il parlamento a costituire una commissione di studio sul problema e il governo a intraprendere contatti diretti con la Santa Sede. Era, con tutta evidenza, un modo per rinviare sine die il problema.
Solo la sinistra socialista (con Basso), i repubblicani (con Spadolini) e gli indipendenti di sinistra (con Parri) continuavano a proporre una revisione a tappeto del Concordato, sottolineando gli aspetti cruciali della questione: le “finte innovazioni”, evidenti ad esempio nella falsa rinuncia della Chiesa alla definizione della religione cattolica come “unica religione di Stato”, elemento, per la verità, decaduto in Italia fin dal 1948; l’accettazione da parte dello Stato dell’autorità della Chiesa sulla attribuzione automatica dei finanziamenti pubblici e anche sulla sua scelta di insegnanti e docenti nelle scuole e università private cattoliche; i privilegi per enti e beni ecclesiastici.

Era quello un copione che più volte, nel corso degli anni, si riproponeva all’attenzione degli Italiani. Grandi questioni di principio, ma poi, nei fatti, nessuna modifica di sostanza.
Il Concordato era infatti uno degli esempi più classici di come la Chiesa, arroccata a difesa delle sue posizioni di privilegio, iniziasse a perdere terreno e consenso tra la gente comune, come avrebbero dimostrato, nei decenni successivi, il calo inesorabile dei fedeli praticanti e delle stesse “vocazioni”. Ed era anche un terreno che, se avesse visto la compattezza e la giusta convinzione da parte del fronte laico, avrebbe potuto riservare spiacevoli sorprese alle gerarchie ecclesiastiche. Ma la vicenda prese, come vedremo, una ben diversa piega.

Il punto era che democristiani e comunisti, cioè a dire la maggioranza dei seggi in parlamento, non erano d’accordo a inimicarsi la Chiesa con forti scelte di laicità che intaccassero non tanto i principi ideali, quanto i suoi stessi interessi economici e finanziari. Per dare un’idea di quali fossero questi interessi, basti riportare qualche breve passo tratto da due “storici” articoli, uno pubblicato su il Mondo (dicembre 1976) e l’altro sul Corriere della Sera (gennaio 1977):

“Solo a Roma è stato calcolato che le proprietà immobiliari degli enti ecclesiastici ammontano a oltre 80 milioni di metri quadrati, un quarto della superficie della città. In Italia, secondo un’approssimazione per difetto, superano i 400 mila ettari… Gli enti ecclesiastici godono di un regime fiscale di favore che comprende non solo la proprietà ma anche le attività costruttive e di esercizio. Gli acquisti sono esenti dalle imposte e dalle tasse di registro, successione e di ipoteca, da quelle sull’asse ereditario e di donazione, dalla tassa di riscossione governativa per l’accettazione di liberalità o per atti a titolo oneroso. Le proprietà sono esenti da contributi di miglioria, dalle imposte sugli incrementi di valore delle aree fabbricabili… La Chiesa cattolica riceve ogni anno dallo Stato una serie di finanziamenti diretti. Somme ragguardevoli sono iscritte nei bilanci dei vari ministeri, soprattutto dell’interno e del tesoro. Il bilancio del ministero dell’interno a favore del culto nel 1976 è stato di 39 miliardi di lire. L’anno prossimo è prevista una cifra pari a 46 miliardi”.

Fu chiesta la costituzione, dagli anni Sessanta fino agli inizi degli anni Ottanta, di diverse commissioni di studio di politici, specialisti, studiosi e furono coinvolte delegazioni della Santa Sede, ma ogni volta i punti cruciali rimanevano inalterati. La solita “grande novità” di principio, vecchia ormai di decenni, relativa cioè alla religione cattolica non più religione di Stato. Il solito rinvio sulle questioni più scottanti. In poche parole, la famosa “bozza di revisione” compiva, da anni, una specie di percorso carsico: per la maggior parte del tempo segreta, invisibile, sotterranea, riemergeva improvvisamente di quando in quando, prendeva una boccata d’aria, non sempre in parlamento, ma passata sottobanco alla stampa, da guardarsi di sghimbescio, per poi far perdere nuovamente le proprie tracce. La Chiesa non era intenzionata, in alcun modo, a cedere i suoi privilegi. Inoltre, col passare del tempo, fu sempre più esautorato il ruolo del parlamento sulla questione, limitando la possibilità di critica dei singoli deputati, e demandando tutto agli accordi diretti tra governo e Vaticano.

Questo almeno fino al 1984, quando a Villa Madama il “decisionista” Craxi e monsignor Casaroli in rappresentanza di Giovanni Paolo II, firmavano un accordo di modifica del Concordato lateranense, secondo la stessa prassi usata tra Stato e Chiesa ai tempi di Mussolini, cioè senza alcuna possibilità di intervento da parte del parlamento. Veniva così varato solennemente un nuovo Concordato tra Stato e Chiesa, votato da tutto l’arco costituzionale (con la sola astensione dei liberali e il voto contrario di radicali, Pdup e Sinistra indipendente).

Più che un evento storico di eccezionale rilevanza, come venne subito dipinto sulla stampa, il nuovo Concordato fu un’occasione abilmente utilizzata per il conseguimento di contingenti utilità politiche da parte del governo. Uno dei tanti compromessi politici della storia d’Italia, probabilmente il più grande, quanto a forze in campo coinvolte e a interessi finanziari, fatto, come tante altre volte, sulla testa del cittadino.

Il nuovo Concordato fondava un regime che non era né quello della separazione tra Stato e Chiesa, né quello dello stato confessionale. Cosa si stabiliva? In teoria, grandi affermazioni di principio: si aboliva l’ormai anacronistico (oltre che anti-costituzionale) riferimento al cattolicesimo come sola religione ufficiale; si assicurava allo Stato una propria autonomia nelle questioni di diritto familiare, l’insegnamento della religione nelle scuole diventava facoltativo e non più obbligatorio; si aboliva la congrua per i sacerdoti.

Nei fatti però, la libertà della Chiesa faceva un indubbio passo avanti, quella dello Stato rimaneva sostanzialmente quale era, mentre le sue finanze, con buona probabilità, diminuivano. Proviamo a spiegare brevemente perché.
Nelle scuole l’insegnamento della religione veniva impartito da insegnanti nominati dall’autorità ecclesiastica, ma pagati dallo Stato. Era introdotta l’ora di religione nelle scuole materne. Si stabiliva che le scuole private cattoliche avessero un trattamento scolastico uguale a quelle statali, senza però precisare i loro obblighi nei confronti dello Stato. Si prevedeva il finanziamento da parte dei cittadini, aprendo la strada al sistema dell’8 per mille del gettito Irpef (con il meccanismo della donazione automatica alla Chiesa cattolica per il cittadino che non avesse espresso alcuna scelta). Era sancito l’obbligo per lo Stato di finanziare le attività, il personale e il funzionamento della Chiesa cattolica, con le sue decina di migliaia di istituti religiosi, parrocchie ed enti di varia natura, che avessero dichiarato di svolgere un “servizio sociale”. Veniva garantita l’esenzione dall’Iva e dall’imposta su terreni e fabbricati e sulle successioni. Erano accollati allo Stato, infine, gli oneri per la costruzione e la manutenzione di edifici di culto, per la tutela del patrimonio artistico gestito da enti e istituzioni ecclesiastiche.
Sul momento tutti parlarono di evento epocale, di accordi che avrebbero giovato sia alla Chiesa che allo Stato e dipinsero Craxi e gli artefici di quel trattato, tra cui anche l’attuale ministro Tremonti, come una sorta di eroi nazionali.

Sono passati 27 anni dal quell’evento storico, abbastanza per valutarne gli effetti concreti.
Nel 2007 l’Unione Europea chiedeva spiegazioni all’Italia sui troppi privilegi della Chiesa in materia fiscale, frutto del nuovo Concordato, sollevando un polverone tra le file cattoliche e religiose. Già durante gli anni precedenti, con i primi governi Berlusconi, e poi in maniera propulsiva negli anni a seguire, sono stati introdotti altri provvedimenti che si potrebbero definire “di favore” nei confronti della Chiesa: l’esenzione dall’Ici (le prime esenzioni furono peraltro inaugurate nel 1992 dal governo Amato), per una somma compresa fra i 400 e i 600 milioni di euro; quella dall’Ires (portata al 50% per gli enti assistenziali), con un risparmio annuo di circa 900 milioni; i finanziamenti alle università private e all’editoria cattoliche; le convenzioni privilegiate con istituti ed enti nel settore della sanità. E altro ancora.

Probabilmente le indicazioni dell’Ue avrebbero dovuto essere tenute in conto anche da altri governi, se è vero che oggi la Chiesa cattolica costa ai contribuenti italiani almeno quanto il ceto politico.
Se paragoniamo i dati forniti negli articoli del 1976 e quelli di oggi, ci rendiamo conto di quanto il nuovo Concordato abbia inciso, ma non certo a favore dello Stato.

Secondo i più recenti calcoli, nel complesso, un gettito di circa 3,5 miliardi di euro all’anno, se si considerano i finanziamenti diretti dello Stato e degli enti locali e il mancato gettito fiscale.
Da dieci anni a questa parte, infatti, solo con l’8 per mille ammonta a circa 1 miliardo di euro l’anno e nel 2011 la cifra ha raggiunto il record di 1.118 milioni. Non si dimentichi il particolare che questa cifra affluisce nella casse della Chiesa solo sulla base di una apparente volontà maggioritaria dei cittadini italiani: solo il 44% dei contribuenti indica a chi attribuirlo e di questi solo il 35% sceglie la Chiesa cattolica. Tuttavia, grazie al meccanismo risalente al nuovo Concordato, le quote dell’8 per mille non espresse, cioè quelle di coloro che non hanno fatto alcuna scelta, non rimangono nelle casse dello Stato ma vengono ripartite tra le confessioni religiose, in base alle percentuali ottenute. In questo modo la Chiesa cattolica percepisce l’85% dei contributi.

A questi vanno sommati i 360 milioni per gli stipendi degli insegnanti dell’ora di religione, 460 milioni per esigenze di culto e pastorale, 235 milioni per interventi caritativi, altri 700 milioni circa versati da Stato ed enti locali per le convenzioni su scuola e sanità.
Si aggiunga che questa è una particolarità tutta italiana. In Spagna, ad esempio, le quote non espresse del 5 per mille restano allo Stato. In Germania i cittadini possono scegliere di versare l’8 o il 9 per cento del proprio reddito alle diverse chiese. Nel resto dei paesi europei vige il principio della volontarietà del contributo, senza trucchi.

Alla luce di questa sintetica ricostruzione storica e dei dati di comparazione forniti, mi pare che si possa già abbozzare una prima valutazione di fondo, sia sui mancati benefici venuti dal rinnovo del Concordato, sia in termini di libertà e di laicità per lo Stato (acuiti dai provvedimenti dei governi successivi), sia -soprattutto- sulle pesanti ripercussioni in termini concretamente economici sui cittadini italiani, credenti e non.
 

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