A furia di prevedere, da quattro anni almeno, la prossima caduta di Berlusconi, prima o poi l’azzeccheremo. Questa volta potrebbe essere quella buona perché si stanno concentrando tutte le condizioni della crisi finale del berlusconismo e della sua lunga egemonia sulla politica italiana. Sono possibili sorprese. Berlusconi non ha alcuna intenzione di fare il passo indietro. Scommette sulle divisioni dell’avversario per condurre una campagna elettorale vincente, ma soprattutto non vuole dare l’idea della ritirata che potrebbe esporre il suo mondo, e i suoi interessi, alla vendetta dei vincitori. L’uomo è combattivo, probabilmente non ha la percezione esatta del discredito che lo circonda, non si lascia altra strada se non la resa con le armi, metaforicamente parlando, in mano. In questo è gheddafiano come l’amico che ha clamorosamente tradito e che a lui si era rivolto nel suo ultimo messaggio. Tuttavia il D-day sembra sempre più vicino e molti pensano che questa sia la settimana cruciale in cui si deciderà il suo destino.
Vediamo da vicino tutti gli elementi che portano a pensare all’avvicinarsi della svolta. Il primo dato che salta agli occhi è l’isolamento internazionale. Qui agiscono diversi fattori. Da un lato c’è un mondo di centro-destra europeo, da Sarkozy alla Merkel, che vuole distinguere le sorti dei conservatori da quelle del populista diventato, a forza di voti, socio decisivo nel Ppe. È in atto un ripensamento profondo nella destra democratica europea che vive una stagione di crisi elettorale sia in Francia sia in Germania anche se si appresta a vincere in Spagna. Il conservatorismo europeo in pratica vuole rompere il cordone ombelicale che lo ha legato alla sua opzione populista e vuole tornare a ragionare in termini classici. Berlusconi è stato parte di questo mondo senza essere mai accettato fino in fondo. Colpa della singolarità della sua figura politica, ma anche frutto di scelte internazionali, dalla Libia alla Russia putiniana, che i conservatori hanno vissuto come invasione di campo. Per la stessa ragione anche gli Usa non sopportano più Berlusconi.
Il secondo punto di crisi che sta maturando riguarda l’inaffidabilità italiana in materia di politica economica. Il tremontismo è stata una breve parentesi nella gestione del bilancio, ma in Europa si sta facendo strada l’idea che i paesi in crisi abbiano non solo la necessità di dimagrire a riguardo delle spese dello stato ma abbiano bisogno di indirizzarsi verso la crescita. Berlusconi ha fallito sui due campi e paesi che si sono impegnati nel comprare il debito italiano stanno mostrando di non aver fiducia nella solvibilità del debitore.
Il commissariamento dell’Italia da parte della Ue, della sua burocrazia e dei paesi più forti è quindi la sintesi di diverse spinte: la normalizzazione politica nel mondo conservatore, la voglia di metter fine alle incursioni italiane negli affari Nord-Sud e Est-Ovest, l’inaffidabilità del governo sia nella gestione dei conti sia nella definizione di politiche di crescita. Da qui gli ultimatum, i sorrisi di scherno, le indicazioni precettive.
Berlusconi può scegliere per qualche ora e per qualche giorno di mostrarsi indignato cercando di ricompattare l’orgoglio nazionale. Ma non ci riuscirà e soprattutto, se non farà le cose che l’Europa gli chiede, si troverà esposto al voto di sfiducia dei mercati un minuto dopo che la stessa Europa si mostrerà reticente nel comprare il debito italiano. Internazionalmente parlando, Berlusconi non ha scampo, è finito. Può sopravvivere, può prendere tempo ma la campanella dell’ultimo giro è suonata e soprattutto gli investitori finanziari e i maggiori paesi europei gli hanno detto con chiarezza che lo considerano inaffidabile. L’Europa ci penserà due volte prima di colpire al cuore l’Italia, ma la rivolta dei mercati è dietro l’angolo.
Il D-day è cominciato anche sul fronte interno. La Lega per la prima volta sta, tutta intera, prendendo in considerazione l’idea della rottura della maggioranza. La Lega è in grave crisi, al proprio interno e nel rapporto con il proprio elettorato. Bossi e il “cerchio magico” hanno paura del dopo e cercano la sopravvivenza, ma poco alla volta si rendono conto che il capitale di consenso concentrato sul vecchio leader si sta consumando. La Lega sa anche che nel dopo Berlusconi si apre la prospettiva del proprio isolamento politico e di una resa dei conti interna molto feroce. E tutto ciò la induce alla prudenza, tuttavia sia i bossiani sia i maroniani capiscono che il tirare a campare allontana lo scontro ma avvicina la rovina del movimento. Se la rottura della coalizione sul tema del federalismo oppure sulla secessione rischia di enfatizzare il fallimento della esperienza di governo, la rottura sulle pensioni riapre un dialogo con la base popolare leghista. Un passo indietro su questo tema sarebbe per la Lega micidiale. Una rottura avrebbe invece la forza di riannodare fili spezzati con il proprio popolo. È facile immaginare che in queste ore Berlusconi e Bossi si ingegneranno a trovare una via d’uscita, ma siamo di fronte alla classica situazione in cui al cammello è impossibile passare per la cruna dell’ago.
Il terzo fronte da esaminare è quello interno al Pdl. Qui il malessere è drammatico. Molti hanno capito che siamo arrivati alla fine della magnifica avventura. Pochi hanno il coraggio di fare gesti clamorosi, ma altrettanti scrutano l’orizzonte per vedere che cosa si prepara. Uno di questi è Tremonti. Il ministro è improvvisamente scomparso dalla prima scena. È, o ha, non so scegliere il verbo, capottato in parcheggio. L’idea che si faccia rosolare a fuoco lentissimo mentre si sta erodendo definitivamente la sua fama di novello Quintino Sella sui conti dello stato, appare improbabile. Così come è improbabile che non avvertano l’urgenza degli eventi le aree ex democristiane, mentre quelle ex socialiste si sono condannate al secondo fallimento di una leadership carismatica. È facile immaginare che nei prossimi voti parlamentari il governo andrà sotto numerose volte accentuando quella sensazione di sbando che tanto preoccupa il capo dello Stato. Finora i sondaggi dicono che il Pdl, pur in caduta libera, mantiene molti consensi, ma anche i berlusconiani più accesi non possono non vedere che sta crescendo la corrente di opinione pubblica che spera nella estromissione del premier. C’è stato un momento in cui il “tradimento” sarebbe stato sanzionato dal discredito del popolo di destra. Ora siamo di fronte alla necessità del “tradimento”.
Ormai sono lontani da Berlusconi sia la Cei sia la Confindustria, sia i suoi antichi alleati europei sia i suoi amati mercati. E tutto si sta concentrando in questo fine mese. Non sarà una rivoluzione e di ottobre quella che si sta preparando, ma certo siamo alla fine di una finta rivoluzione liberale.