RODI – «Siamo riusciti a combattere la corruzione nei processi elettorali grazie ai telefonini». Lo dice a Linkiesta Navin Chawla, fino all’anno scorso presidente della Commissione elettorale indiana, l’organo costituzionale che si occupa del buon funzionamento delle urne nella più grande democrazia del mondo. Dove 30 milioni di persone l’anno, su 1,5 miliardi di abitanti, grazie alle riforme economiche, raggiungono il benessere della classe media, e chiede maggiore trasparenza. In questo contesto Chawla legge lo sciopero della fame del sociologo e santone Anna Hazare, che ha messo in crisi il premier Mahmoan Singh e la leader del partito del Congresso Sonia Ghandhi, recentemente sottoposta a un intervento chirurgico e ora al lavoro con il partito per elaborare una strategia in vista delle elezioni in cinque Stati indiani, nel 2012. Sulle famose teorie del Nobel Amartya Sen, che riguardano la correlazione tra carestie e processi democratici in India, recentemente criticate dall’ecologista Vandana Shiva, Chawla spiega che due leggi fondamentali – il diritto al lavoro per tutti, sancito nel 2009, e il diritto a un minimo di cibo giornaliero, in discussione in Parlamento – porranno le basi per una società più equa, oltre il sistema delle caste.
Fino all’anno scorso, per cinque anni e mezzo lei è stato il presidente della Commissione elettorale indiana, organo indipendente che si occupa di certificare quando un partito diventa “nazionale” e, soprattutto, è garante del buon svolgimento delle elezioni. Un compito piuttosto complesso, nella più grande democrazia del mondo.
Innanzitutto, nostro dovere è garantire il funzionamento della macchina elettorale. Ci occupiamo inoltre di stabilire quando un partito ha la maggioranza sufficiente per poter essere definito nazionale. Attualmente, i partiti nazionali sono sei, mentre i partiti “statali” circa 46. Ciò dipende da una formula di rappresentanza: per diventare nazionale, un partito deve avere la maggioranza in almeno quattro Stati, mentre per essere considerato “statale”, ovviamente, deve avere la maggioranza dei voti in quel determinato Stato.
Lei ha condotto le elezioni del 2004 e quelle del 2009. Come si fa a mettere in piedi una macchina elettorale in un Paese dove vive 1 miliardo e mezzo di persone e tutti, passati i 18 anni, possono votare al Parlamento?
Mi creda, non conta quanto sia grande un Paese. Abbiamo alcuni vantaggi come una Commissione elettorale indipendente garantita dalla Costituzione e terza rispetto agli altri poteri dello Stato, composta da tre membri che non possono essere rimossi tanto facilmente, e sono salvaguardati nel loro mandato. La Commissione negli ultimi membri negli ultimi 18 anni ha cercato di sviluppare prassi sempre migliori. C’è stata una graduale evoluzione nel 2009 rispetto al 2004, per esempio abbiamo usato la tecnologia a nostra disposizione, come il voto online.
Ci sono state molte critiche sul voto online.
Sì, è vero. Il fatto è che, se da un lato il web è diffuso soltanto nelle città, dall’altro lato siamo molto tradizionalisti: le persone avevano paura che i voti raccolti online potessero venire attaccati dagli hacker, come i conti correnti bancari. E ovviamente, anche solo un voto può fare la differenza.
Lo scorso luglio, lo scrittore Ramachandra Guha sul Financial Times sottolineò che la piaga della corruzione nel Paese ne avrebbe frenato la leadership economica.Tuttavia, ci sono Paesi come la Corea del Sud dove la crescita è esponenziale a dispetto della corruzione. Crede sia il caso anche dell’India?
Mi lasci rispondere partendo dalla mia esperienza diretta. Nel momento in cui vengono annunciate le elezioni tutti i partiti giocano sullo stesso piano. Abbiamo 28 Stati, e spesso i partiti che sono al Governo a livello locale stanno all’opposizione. Tutti però hanno lo stesso codice di condotta, ad esempio la rinuncia all’autista e all’autoblu, fino al risultato delle elezioni. Se, ad esempio, un ministro viene pizzicato a utilizzare l’autoblu, la Commissione gli notifica un avviso tale per cui se in 24 ore non fornisce una spiegazione, viene sbugiardato su tutti i media, locali e nazionali. Una vergogna inimmaginabile. Aggiungo che tra il 2004 e il 2009 ci sono state circa 40 elezioni locali, e nessuno ci ha mai mandato una notifica.
Com’è possibile?
Abbiamo sviluppato un eccellente sistema di comunicazione – in un Paese che è grande come un continente – per verificare se le notifiche di comportamenti corrotti sono veritiere o meno, in circa 20 minuti. Come? Tra le elezioni del 2004 e quelle del 2009 il 62% del nostro Paese è stato raggiunto dalla telefonia cellulare. Abbiamo i nostri osservatori in loco, e dove il telefonino non prende usiamo la connessione satellitare. Confrontiamo le informazioni, e possiamo sapere in tempo reale se le denunce che ci arrivano sono soltanto illazioni. I nostri osservatori, 2mila in tutto il Paese, appartengono ai reparti più blasonati della nostra polizia, che registrano tutto, anche utilizzando videocamere per presidiare i seggi, e questo dà molta confidenza ai cittadini.
E allora come mai il sociologo Anna Hazare ha intrapreso uno sciopero della fame per sensibilizzare la popolazione sul tema della corruzione, suscitando la dura reazione del premier Manmohan Singh contro i corrotti?
Ciò che vedo io è un desiderio, da parte di Anna Hazare, di maggiore trasparenza. Hazare ha chiesto, dopo il nostro Freedom of information act, approvato nel 2004, un ombudsman anti-corruzione. Non entrerò nei dettagli, ma mi lasci sottolineare che, grazie alle riforme economiche degli ultimi anni, 30 milioni di persone l’anno escono dalla povertà per andare a infoltire la classe media. Sono persone che hanno ricevuto un’educazione, stanno bene, e chiedono maggiore trasparenza. E Anna Hazare è parte di questo movimento, che come ho detto parte dal Freedom of information act, che con 20 rupie ti consente di accedere a tutte le informazioni governative che desideri. È una questione di dare maggiore potere alle persone affinché la corruzione non venga mai condonata, ma al contrario possa sempre affiorare alla luce del sole.
Le teorie del premio Nobel all’economia, Amartya Sen, sulla correlazione tra assenza di carestie e elezioni democratiche in India hanno fatto scuola, ma recentemente il leader ecologista Vandana Shiva ha sollevato molti dubbi in merito, sostenendo che nelle regioni più povere, come l’Orissa, la situazione rimane difficile. Chi ha ragione?
Rispondo con due considerazioni. Primo, il provvedimento legislativo più importante degli ultimi anni, approvato nel 2009 – lo schema Mahatma Ghandhi Narega – sancisce il diritto di lavoro per tutti, anche per le famiglie più povere, di almeno una persona, per 150 rupie al giorno. Una legge che ha eliminato le migrazioni di massa verso le fattorie del Punjab, che avvenivano in passato. Secondo, il Food security act, il piano predisposto dal Governo per garantire a tutti un minimo di cereali garantiti al giorno. Attualmente, la misura è in discussione al Parlamento, in commissione pianificazione, dove si dibatte soltanto sull’ammontare di questo livello minimo, che Vandanda Shiva vorrebbe ben al di sopra di quanto attualmente in discussione, ma la bozza dovrebbe passare senza problemi durante la sessione invernale, quindi per fine novembre. È difficile considerare possibile che, come negli anni ’40, poco prima della proclamazione della democrazia, possano morire di fame 2 milioni di persone. Fortunatamente, quei tempi terribili sono passati. Questi provvedimenti sono inoltre una buona base per riuscire a superare definitivamente il sistema delle caste.