E se a unire l’Italia divisa fosse la Camorra?

E se a unire l’Italia divisa fosse la Camorra?

Sul sito de L’Espresso è stato pubblicato il 26 settembre un articolo di Claudio Pappianni sulla festa dei Gigli del quartiere Barra di Napoli, accompagnato da un video (qui: http://espresso.repubblica.it/multimedia/30547536/2) su una festa “di popolo” di camorra.

Leggere quell’articolo e vedere il correlato video suscita una serie di forti emozioni. Ma due di esse si impongono a chi scrive. La prima reazione, meditata, è lo sconcerto: che simili scene di massa possano accadere a meno di 2 ore di treno da Firenze sembra quasi impossibile. Scioccante non solo per la massa di individui ben consapevoli della dimensione autocelebrativa della camorra propria di quella festa, ma scioccanti anche per i colori, la lingua (grazie a l’Espresso per i sottotitoli), le prassi, il gusto, i suoni, le madonne. Un altro mondo, un altro pianeta a due passi dall’ex Gran Ducato di Toscana. Anche senza la camorra, l’appello ai suoi morti e le benedizioni donabbondiane di un parroco spregevole, sconcerta la distanza percepita rispetto a qualunque accadimento popolare sopra Roma. Lo stesso sentimento di estraneità che abbiamo percepito, in un contesto ben più doloroso, quando abbiamo tutti acceso la TV sulle immagini di Capaci e Via D’Amelio e per un istante – l’istante che ci ha separato dalla lettura dei titoli in sovraimpressione sullo schermo – tutti abbiamo immediatamente pensato alla guerra in Jugoslavia e a un’altra atroce operazione dell’esercito serbo. Non era la Bosnia allora e non è l’Asia meridionale adesso. È l’ Italia, o almeno così ci dicono da 150 anni.

Chi scrive ha fatto seguire alla prima forte emozione, una domanda altrettanto forte, cui ha dato una risposta, ma che qui mantiene solo sottotraccia per il rispetto dovuto all’autonomia del lettore. Chi scrive si è domandato quale senso abbia un Paese che pretende di tenere nello stesso contesto civile e istituzionale i mercatini di natale di Bressanone e le feste in strada della camorra napoletana. Di più, che possibilità’ abbia un Paese di poterli validamente tenere insieme.

Questo disgraziato Paese – che si pretende uguale quando uguale non è per niente, che si pretende analizzabile nel suo complesso attraverso statistiche che più diseguali non sono in nessun altro paese sviluppato – sta evitando accuratamente di affrontare la domanda di base sul senso di sé. Complice l’incredibile impreparazione culturale e di potere della Lega, l’Italia pretende di continuare a dare per scontato ciò che scontato non è più.

La Repubblica non discute del suo intollerabile squilibrio territoriale e del baratro di irresponsabilità fiscale su cui oggi si fonda, perché nel corso di tale confronto politico, culturale e istituzionale, emergerebbe con chiarezza che le ragioni del nostro stare insieme vanno radicalmente ridefinite. Non in assoluto, perché non si tratta di cestinare l’Italia per adottare immaginifiche macroregioni, non si tratta di secessione. Ma di una presa di coscienza, dolorosa, che né gli ideali resistenziali né tanto meno quelli risorgimentali, sono più sufficienti a spiegare, a fondare, a giustificare la concreta realtà del nostro stare insieme. Richiamare il Nord e il Sud alla loro comune radice nazionale e al rispetto dei simboli repubblicani ha un profondo senso dialettico, ma non più politico.

L’orgoglio – o più semplicemente il sentimento – nazionale si fonda necessariamente sui successi, sulla capacità dello Stato (la nazione non dovrebbe avere veramente più alcun senso nell’Europa di oggi) di giustificare giornalmente il vantaggio, l’interesse e la decenza che derivano al singolo e alla comunità dall’appartenere ad esso. In assenza di questa consapevolezza, si configura un rapporto tra Stato e cittadino pericolosamente simile a quello tra padrone e servo, un vincolo indissolubile, e posto indipendentemente dalle convenienze reciproche, un obbligo del secondo a servire il primo.

La seconda emozione che la lettura di quell’articolo ha suscitato in chi scrive è la paura. Una paura terribile e paralizzante legata all’ipotesi che quelle scene e i valori che le creano e le legittimano, quell’humus culturale e civile che le sostanzia, altro non siano che l’anticipazione di quel che sarà Gallarate, Paullo o Milano stessa tra pochi anni. Quel cancro si è espanso ovunque, la malattia che corrode le istituzioni e il senso della cosa comune, il rifiuto della fatica del lavoro e delle regole, l’impunità di chi sa che c’è sempre qualcun altro che pagherà il conto, la dittatura dell’io e delle sue esigenze assolute ha infettato larghe piaghe di territori settentrionali. Non stiamo rivendicando nessuna purezza, ma senza una chiara presa di coscienza che il cancro viene da fuori e che si è radicato qui non potremo salvarci. Per questo i vari tribuni che da altri lidi vengono a parlarci di “Milano capitale della Mafia” o “prima città di camorra del Paese” vanno rispediti nello stesso girone dei traditori politici in cui infilare le giunte milanesi di centrodestra e i coevi prefetti della città che non hanno mai voluto istituire una Commissione antimafia o che hanno semplicemente negato – come nella Corleone degli anni ’70 – il fenomeno della drammatica infiltrazione. Questo non è un territorio di mafia, questo è un territorio che rappresenta il premio ultimo del dominio del Paese da parte della criminalità organizzata. Questo territorio non ha prodotto le organizzazioni criminali, ne sta subendo l’assalto.

E quindi basta confusioni, basta retorica sull’Italia, sul sole, sul mare, sul made in Italy, basta con la balla di ricette onnivalenti per un Paese che non esiste, per un’unitarietà che non esiste. Con la fine dell’anno si ripongano coccarde e bandiere tricolori, inni, retoriche. E ci si affretti ad affrontare in profondità un dibattito serio sul senso di unità, eventualmente per rifondarla. Altrimenti le parole del Presidente della Repubblica appaiono più il frutto di un fondato timore per il rischio concreto di rottura che non le sagge parole del garante di un principio costituzionale sempre più evanescente.

*autore collettivo di Luigini contro Contadini – Il lato oscuro della questione settentrionale – edito da Guerini e Associati

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