Ecco perché un uomo di sinistra deve odiare Cuba

Ecco perché un uomo di sinistra deve odiare Cuba

IL RACCONTO – Il tiranno in Arcadia

di Luca Fontana*

C’è un’Arcadia, un’isola di Citera, verso cui vola la fantasia (a volte ci vanno di persona, in vacanza) di una parte della sinistra italiana. È l’ultimo Jurassic Park del comunismo, cui non anelano, si badi bene, decrepiti sopravvissuti stalinisti. No, Cuba è l’ultimo sogno infrangibile di quel tipo sociale che a Parigi si direbbe bobo, bohémien-bourgeois: reddito medio, età media, qualche pretesa culturale, poco approfondita, e il piacere piccato di appartenere a un’inesistente dissidenza d’élite. È un credo, una fede (e, come si sa, coi credenti è del tutto inutile discutere). Fede a cui, in Italia, aderisce anche una piccola minoranza di artisti, di valore altissimo. Si cerchi in Google e YouTube «Abbado Cuba», e si vedrà quanti sono i pronunciamenti del grande direttore d’orchestra (sono un buon conoscitore di musica, e posso ben dirlo: grandissimo!) a favore del regime castrista; sino a rimanere perplesso quando gli si chiede: «Ma le violazioni dei diritti umani?». E lui, cadendo dalle nuvole: «Quante?, quali?». Una piccola e nutrita legione di sostenitori del castrismo è poi formata da intellettuali di minor tacca. Il culto, che non mi risulta esistere in nessun altro Paese europeo, ha da noi un suo pontefice, un peraltro ottimo giornalista. Perché mai tanta fede dopo il crollo rovinoso del comunismo nel mondo? O il suo persistere come inganno nel feroce capitalismo di Stato cinese che si copre le vergogne con la bandiera rossa? 

La rivoluzione cubana, o quel che è stato, ha prodotto una di quelle icone che si incidono nella memoria visiva per generazioni: la celebre immagine del medico argentino Ernesto Guevara Lynch de la Serna, noto ai più come el Che. La celebre foto di Alberto Korda, con basco, occhi persi nell’infinito, capelli e barba incolti, riprodotta – si direbbe per sempre – su milioni e milioni di Tshirts, è il santino perfetto dell’eroe predestinato: muore giovane chi è caro agli dei; e gli eroi veri son quelli che falliscono e muoiono giovani, vittime del proprio fallimento. Guevara, la sua icona, è simbolo, e il bovarismo si nutre di simboli. All’interno della sinistra movimentista degli anni ’60 e ’70 – io c’ero – e con crescente rilievo negli anni ’70, c’era un forte filone che potremmo definire con termine tutt’altro che frivolo e spiritoso, ma solidamente analitico, lenin-bovarista. È stato, fu, un movimento dei ceti sociali che, ahimé, nel Novecento hanno prodotto più “storia” o storiaccia in Italia. Per brevità li si può definire una piccola e piccolissima borghesia marginale. Le rivoluzioni altrui furono per quelle generazioni quello che per Emma erano i salotti parigini: un altrove e un altrimenti sognati.

Cuba, poi, col suo sentore di rumba, sigari e rum, fu da subito la più simpatica, la più esotica, la più turistica di tutte le rivoluzioni. C’era poi un altro aspetto particolarmente attraente per quell’impasto di pulsioni progressiste e reazionarie che si agitavano in quel movimento: il rifiuto dell’industria, il ritorno all’agricoltura. La canna da zucchero che avrebbe vinto la tecnologica distruttiva – il Vietnam era lì a dircelo – del nemico americano. L’antindustrialismo, l’antimodernità, sono tratti perenni dell’ideologia italiana, sia di destra che di sinistra; hanno radici profonde, nella resistenza cattolica alla civiltà moderna dalla Rivoluzione francese, nell’impostazione idealistica della scuola italiana. Nella mia generazione, a centinaia, all’università ci siamo chiesti: «Vai a Cuba a fare la safra (raccolta della canna da zucchero)? E alcuni sono andati. L’economia della canna da zucchero fu il primo e maggior disastro cubano. Il regime fece regredire Cuba alla più tipica forma di economia coloniale: la monocultura, fu un’autocolonizzazione. Le conseguenze si pagano ancora oggi. Tanto che oggi lo zucchero lo devono importare.

Cosa dovrebbe vedere, se avesse occhi, l’italiano di buoni sentimenti politici, ossia l’italiano che non vada a Cuba per fare sesso, soprattutto con minorenni (legioni di questi)? Un Paese stremato da mezzo secolo di gestione economica demente e sgangherata, in primo luogo. Naturalmente, la propaganda del regime dice che quell’evidente disastro è il risultato dell’infame embargo americano. Vorrei aver spazio per argomentare la falsità economica di quell’affermazione. Qui posso solo accennare il senso politico di quell’embargo (dalla propaganda enfaticamente gonfiato a bloqueo, blocco). È stata la più grossa fortuna capitata a Fidel Castro. Non fosse stata la politica americana così stupida da offrirgli l’occasione di diventare pedina decisiva nella guerra fredda, el tio chocho (lo zio rimbambito), come molto irrispettosamente lo chiamano oggi i cubani, sarebbe in pensione da decenni. È significativo che proprio in questi giorni la mano dignitosamente tesa da Obama sia stata rifutata da Fidel – o meglio, dal comitato che firma i suoi comunicati, con a capo i suoi tanti figli – e il povero Obama si sia anche sentito definire «stupido». Atto in assoluto contrasto con la politica dell’attuale quasi Líder máximo – il fratello Raúl – da sempre detto dai disincantati la loca china, la pazza cinese, poiché da sempre si insinua una sua presunta omosessualità e passione per i militari, di cui è del resto capo supremo. Raúl e il comitato d’affari militare che presiede, impegnato a spartirsi i ricchi proventi del turismo, fanno da tempo timidi passi di distensione verso gli Stati Uniti. Anche Raúl ha una vasta famiglia. «La lotta terminale per il potere a Cuba», mi dice un amico cubano, «sarà tra i figli di Fidel e quelli di Raúl». Si accorgesse di tutto questo il mio italiano attento e di buoni sentimenti potrebbe soltanto concludere che Cuba è ed è sempre stata un regime militar-familista, per convenienza retorica e politica degli anni ’60 chiamato comunista, che con la democrazia e il rispetto dei diritti umani non c’entra proprio niente.

Un regime che è stato fortemente o forse totalmente modellato dal suo fondatore e dittatore. Fidel Castro Ruz nasce nell’Oriente di Cuba, figlio di un sergente galiziano dell’ultimo esercito imperiale spagnolo, riamasto a Cuba alla fine guerra ispano-americana e diventato ricco proprietario terriero rubando terra ai contadini. Figlio illegittimo, come tutti i suoi fratelli e sorelle. La madre era una domestica libanese. Delle origini familiari conserva una visione totalmente agraria della ricchezza (la monocultura zuccheriera era un’idea sua, appoggiata da Guevara). Quando ancora camminava, non mancava ogni anno di fare un giro della fattorie di Stato modello; le poche che sembravano funzionarie. Un apposito ciambellano lo informava dei nomi delle vacche kolkoziane. Al suo arrivo domandava all’improvviso. «E come sta la Pepita? E quanto latte ha fatto quest’anno la Carmencita?». Buon studente dai Gesuiti, dove impara ipocrisia e moralismo di facciata, che imporrà – lui assai promiscuo – alla sessualmente più promiscua isola del mondo. La sua carriera di credente lo porterà a essere leader della gioventù cattolica. Dai Gesuiti forse impara qualcos’altro: l’idea di una società ben regolata da un potere gerarchico e paternalistico assoluto (e Cuba, per molti aspetti, ancora oggi ricorda una colonia gesuitica del XVII secolo).

All’università si mostra grande ammiratore di José Antonio Primo de Rivera, fondatore della Falange spagnola, e si vanta di saperne a memoria tutti i discorsi: Primo de Rivera, se si studia la oratoria di Fidel, gli è infatti maestro di retorica per il resto della vita. La rivoluzione, col suo gruppo di señoritos – come li chiamavano sprezzanti i comunisti dell’Avana, che intanto avevano iniziato la loro rivoluzione – la comincerà con vaghe idee democratiche e liberali. Quando le due rivoluzioni si incontreranno nel 1959 all’Avana, alcuni dei leader delle brigate comuniste faranno una brutta fine: già che fine ha fatto il povero Camilo Cienfuegos? Comunista – ma credo proprio sia un orpello retorico; cinico è forse l’aggettivo più appropriato – lo diventò per influenza di Ernesto Guevara, e soprattutto perché gli stupidi americani lo spinsero tra le braccia dell’Unione Sovietica. Una stratigrafia dell’ideologia cubana e dello strambo potere cui fa da puntello mostrerebbe che tutte queste influenze culturali permangono.

Nel 1999, ebbi la fortunata opportunità di un incontro ravvicinato col Líder máximo. L’occasione era un’iniziativa di Claudio Abbado che portava a Cuba, in dono, strumenti per il Conservatorio dell’Avana, assieme alla Mahlerjugendorchester, che eseguì la VII sinfonia di Mahler, ascoltata soltanto da uomini e donne dell’aparato, la nomenklatura locale, e da centinaia di gorilla iperarmati e con viso di pietra: un biglietto sarebbe costato lo stipendio di tre mesi di un impiegato. I pochissimi tra i comuni mortali che erano riusciti, chissà come, a procurarsee uno, venivano affrontati dai gorilla armati che glieli toglievano a forza di mano e li strappavano. Ho raccontato più volte per scritto questa surrealissima esperienza. Della cui surrealtà Abbado non si accorse affatto. Ben al di là del surreale fu l’incontrato con Lui. Dadaista è forse la parola giusta. Lo raccontavo circa così: in una sala immensa e grigia, vuota, decorata torno torno soltanto da ritratti di vacche in tutti gli stili – vacche realiste, vacche impressioniste, vacche cubiste, vacche astratte – accanto allo stipite dell’altissima porta, si staglia… chi? Chi è questo vecchio hidalgo spagnolo disceso per magia da un antico ritratto polveroso? Con discronia stridente gli guardano le spalle cinque armadi di uomini con auricolare e rigonfi vistosi sotto le ascelle. Un ciambellano ci introduce. Quando viene il mio turno e stringo quella mano scarnita da inquisitore spagnolo – con unghie lunghissime e mal curate – mi si illumina la memoria… De compleción recia, seco de carnes… È Don Chisciotte. Con gli occhi pazzi come Don Chisciotte. Quella gestualità scricchiolante gli è imposta dalla corazza, il giubbotto antiproiettile che da vicino gli si vede ben delineato sotto il vestito borghese amplissimo. «Mucho gusto», mi sussurra con voce di tenore afono. Un braccio gli sporge dalla manica quando tende la mano, scheletrico e chisciottesco anche quello (giubbotto e pistola gli impongono di portare una camcia a maniche corte). Una lieve paresi lo ha lasciato con due profili: uno animatissimo e bello, da seduttore e assassino di donne, un Landrui invecchiato, un altro da spietato e imponente Grande Inquisitore, un perfetto Padre Guardiano della Forza del Destino.

È la sera del 13 agosto 1999, la sera del suo settantatreesimo compleanno. I ragazzi dell’Orchestra hanno portato gli ottoni. È mezzanotte; durante la serata lui aveva detto più volte di essere nato alla mezzanotte di 73 anni prima. I ragazzi gli si schierano davanti e attaccano Tanti auguri a te. Lui quasi si mette sull’attenti, poi – sarà forse l’impatto fisico del suono a sorprenderlo davvero – si porta una mano scossa da un lieve tremore al viso, si copre a lungo con pollice e indice gli occhi. Quando li riapre sono invasi di lacrime. Con voce di vecchio tenore afono e sovrana immodestia dice: «Credo di essere stato per tutta la mia vita uno strenuo combattente per la libertà; spero che anche voi lo sarete». Che grande attore! Vorrei rispondergli con un tocco di ironia. Ma con mia sorpresa sento la mia voce commossa che dice: «Fidel, amor de mi juventud, feliz cumpleaño».

* Luca Fontana, studioso e traduttore di Shakespeare, è professore di Drammaturgia allo Iuav di Venezia.
 

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IL GRAPHIC NOVEL – Perché proprio Cuba?

«Perché è un paese molto interessante in questo momento», così rispondevo agli amici che mi rinfacciavano di essere un nostalgico della rivoluzione o di essere irrimediabilmente attratto dall’immagine sdolcinata di quel Paese. «Perché Fidel Castro si è dimesso e questo segna un cambiamento in uno degli ultimi avamposti del socialismo, una spina nel fianco del Nord America.» Inoltre, il nome ha sempre avuto per me un suono accattivante: sapeva di avventura, nostalgia di Paesi lontani, gioco d’azzardo, declino. Ma questo preferivo tenerlo per me. Sentivo l’urgenza di farmi un’immagine di quel Paese e della sua gente. È davvero tutto così difficile come si legge sempre sui giornali, oppure Cuba è un posto affascinante come mi raccontano entusiasti gli amici dopo i loro viaggi? E com’è cambiata davvero la situazione dopo il ritiro di Fidel Castro? Infine, volevo partire per un viaggio verso Cuba anche per documentarmi per il mio nuovo lavoro, la biografia del Líder Máximo, per respirare l’aria nelle strade del Paese e viverne l’atmosfera, visitare i luoghi della rivoluzione e capire ciò che si nasconde dietro le immagini emblematiche di questi giorni. Negli ultimi mesi mi ero preparato: ho frequentato corsi di spagnolo, letto pile di libri sulla storia, contattato l’ambasciata di Cuba a Berlino (sono stati tutti molto gentili), parlato con cubani in esilio, raccolto indirizzi e conosciuto persone i cui amici mi hanno invitato all’Avana. La partenza era prevista per il marzo del 2008: sono salito sull’aereo per L’Avana con un sacco di dubbi in testa e di progetti. Mi aspettavano quattro settimane a Cuba…

L’autore Reinhard Kleist nasce nei dintorni di Colonia nel 1970, studia grafica e design presso la Fachhochschule Münster. Dal 1996 vive a Berlino e assieme agli autori Fil, Mawil e Andreas Michalke apre un atelier di fumetto. Pubblica svariati libri per numerosi editori, come Ehapa (Lovecraft e Dorian), Landpresse (Das Festmahl, 153 Sterne und vier Fische e Das Grauen in Red Hook) Reprodukt (Fucked e Steeplechase), Edition 52 (Das Grauen im Gemäuer e la serie Berlinoir). Realizza inoltre le illustrazioni dei libri di China Mieville, H.C. Artmann, J.G. Ballard e delle copertine dei dischi per la Terrorgruppe e la Bear Family Records, nonché disegna in grande stile la facciata di diversi edifici a Berlino; infine, lavora come art director per la realizzazione di svariati cartoon.

La casa editrice Black Velvet nasce nel 1997 per volontà di Omar Martini e Luca Bernardi, prefiggendosi inizialmente due scopi: cercare di aprire uno spazio (allora inesistente) a un certo tipo di fumetto americano che, basandosi sull’autobiografia e sul quotidiano, allarga le capacità espressive e di comunicazione del mezzo e fornire nuovi esempi di quello che può essere un approccio diverso, più concreto e professionale, alla critica del fumetto.

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