Il Sudafrica al mercato non crede più e la Cina diventa un mito

Il Sudafrica al mercato non crede più e la Cina diventa un mito

Una sedia vuota, come quella lasciata ad Oslo, dagli accademici del premio Nobel, in omaggio a un altro nemico del politburo cinese, il dissidente Liu Xiaobo. All’ottantesimo compleanno dell’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, festeggiato nell’aula magna dell’Uwc di Cape Town, il Dalai Lama non è potuto intervenire in carne ed ossa. La massima autorità del buddismo mondiale si è dovuto accontentare di una videoconferenza, tenuta a 23 mila chilometri di distanza.
La reunion tra i due Nobel per la pace è diventata un caso internazionale. Formalmente, problemi di visto. Nella sostanza, una questione di opportunità politica. L’arcivescovo ha tuonato contro il governo di Pretoria, definito “peggiore di quelli dell’apartheid”. Ma il presidente Zuma ha fatto spallucce: “Non c’è stata alcuna pressione da parte della Cina”.

Più che l’umanitarismo poté il business. Due settimana fa il vicepresidente sudafricano Kgalema Motlanthe è stato in Cina per una visita ufficiale. Un viaggio piuttosto lungo, durato quattro giorni, e non certo infruttuoso. Secondo la Reuters, oltre ai numerosi trattati commerciali, sono stati concordati progetti di investimento per un totale di due miliardi e mezzo di dollari.

Charles Robertson, capo economista della banca d’investimento Renaissance Capital, non mostra dubbi: «La Cina considera il Sudafrica molto più che una testa di ponte per il resto del continente«. Nel 2009 gli investimenti diretti da Pechino nella terra di Zuma hanno raggiunto i 2,3 miliardi di dollari, un quarto del totale africano. Pretoria è di gran lunga la destinazione privilegiata dei capitali cinesi, davanti a Zambia (9 per cento) Nigeria (11 per cento) e Sudan (6 per cento).

Nel 2007 la più grande banca commerciale del Dragone, la Icbc, ha acquistato per 5,5 miliardi di dollari il venti per cento della sudafricana Standard Bank, il più grande istituto bancario del continente, presente in 30 Paesi del mondo. Secondo il classico schema di Pechino, il Sudafrica esporta in Cina materie prime, soprattutto minerali, ed importa manufatti. Anche gli investimenti appena pattuiti saranno concentrati “sulle risorse geologiche e minerarie”, e sulla cooperazione tra le rispettive banche per lo sviluppo.

L’end game è certamente più favorevole alla Cina, che ha un disperato bisogno di risorse naturali, in primo luogo commodities energetiche e minerarie, e di uno sbocco per il proprio export, condizioni imprescindibili per mantenere tassi di crescita da locomotiva del pianeta. Tuttavia, anche per il Sudafrica l’impegno a lungo termine di Pechino è una buona notizia, in una fase storica in cui il mondo occidentale oscilla tra recessione e stagnazione.

Già nel 2010, durante la tournée asiatica di Zuma, era stata firmata la cosiddetta Dichiarazione di Pechino, che mirava a costruire una partnership strategica tra i due Paesi. La visita di Motlanthe, accompagnato da un nutrito gruppo di businessmen sudafricani, segna un passo ulteriore. Il Dragone, con le sue gigantesche imprese di Stato, viene citato esplicitamente come modello: «Intendiamo diventare una potenza globale. I mercati da soli non possono produrre un tale cambiamento. Lo Stato deve giocare un ruolo guida nell’economia, in modo da soddisfare i bisogni della popolazione, della classe lavoratrice così come dei ceti poveri urbani e rurali».

L’obiettivo del Sudafrica è quello di creare, nel prossimo decennio, cinque milioni di posti di lavoro, utilizzando la leva statale. I policymakers di Pretoria, molti dei quali di estrazione marxista, ritengono che il settore privato non sia più lo strumento principe per mutare il quadro macroeconomico del Paese, ancorato al 25 per cento di disoccupazione e a un tasso di povertà che sfiora il 50 per cento.

Dal Washington Consensus al Beijing Consensus, in apparenza. È difficile, infatti, che il modello cinese possa essere adottato del tutto. La legislazione sudafricana, frutto dell’alleanza tra l’Anc governativo e il Congress of South African Trade Unions – un’unione forgiata negli anni della lotta all’apartheid – garantisce ai lavoratori diritti ben maggiori rispetto a quelli riconosciuti a Pechino: il costo medio del lavoro a Pretoria supera di sei volte quello cinese. Se l’Anc tagliasse i salari, il Paese recupererebbe competitività e creerebbe occupazione, ma per il partito del presidente Zuma sarebbe una scelta politicamente suicida, perché perderebbe alleati preziosi.

L’asse tra Cina e Sudafrica, comunque, è nei fatti una partnership utile anche a riverniciare l’immagine offuscata del Dragone, per mostrare come la dialettica con il Continente Nero avvenga su un piede di parità. Di fronte alle accuse di neo-colonialismo, di spoliazione delle risorse naturali, di patti funzionali agli interessi cinesi e non a quelli africani, Pechino ha cambiato linguaggio. Non più il semplice scambio materie prime versus infrastrutture, ma una cooperazione allargata “ad ogni livello”, per usare le parole del premier Wen Jiabao, “dalle energie rinnovabili alla green economy, dall’agricoltura all’educazione, dalla salute alla cultura”.

È stata proprio la Cina, lo scorso anno, ad invitarePretoria ad unirsi al gruppo dei Bric (Brasile, Russia, Cina, India), l’ormai celeberrimo acronimo creato dall’amministratore delegato di Goldman Sachs, Jim O’Neill, esattamente dieci anni fa, per indicare i mercati emergenti, dalle caratteristiche e dalle prospettive comuni.
Così i Bric sono diventati i Brics. Un asse che spazia dal piano economico a quello geopolitico. In politica estera alcuni esperti parlano della formazione di un “fronte della non-interferenza”, restio ad ogni intervento della comunità internazionale negli affari interni di uno Stato.

La Cina – e con essa Russia, India e Brasile, tutti membri, permanenti o temporanei, del Consiglio di Sicurezza dell’Onu – si è astenuta durante il voto sulla risoluzione 1973, che ha aperto la strada all’intervento in Libia. Il Sudafrica si è espresso a favore, ma i due Paesi si sono ritrovati uniti nel criticare la missione della Nato, che – a detta loro – avrebbe superato i limiti del mandato Onu. Pretoria e Pechino sono stati tra gli ultimi a riconoscere il Consiglio nazionale transitorio di Bengasi e a scaricare Gheddafi, e lo hanno fatto solo quando per il Colonnello la partita è sembrata irrimediabilmente chiusa.

Lo scorso 6 ottobre, quando a Palazzo di Vetro è stata discussa la questione siriana, la Cina – assieme alla Russia – ha votato contro la risoluzione anti-Assad, esercitando il diritto di veto. Il Sudafrica – come India e Brasile – si è astenuto. Pretoria ha motivato il proprio voto indicando la necessità di una soluzione “olistica” della vicenda, che comprenda tutte le forze politiche, evitando a tutti i costi uno scenario libico, ossia un intervento esterno che porti a un regime change. Un linguaggio non molto diverso da quello in voga a Pechino.
 

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