La crescita, la crescita. Come un’araba fenice che “ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa…”. E più la si agogna e la si insegue, meno si realizza e si manifesta. Ma, al di là del desiderio e della necessità sempre più impellente, l’orizzonte da tempo segnala un declino o al massimo una condizione di faticosissima stabilità, in un clima ricorrente di sfiducia, se non di rassegnazione. Perché vengono a mancare (o almeno appaiono deboli e incerti) quegli “indicatori” di ottimismo sociale che assicurano a un Paese la spinta verso il futuro, ovvero la creatività e la generazione.
Allora conviene interrogarsi sui motivi profondi di una crisi antica e sotterranea che si è accumulata nel corso dei decenni e poi emerge quasi all’improvviso, presenta il conto tutto insieme e alla fine scoraggia la naturale vitalità delle generazioni che si affacciano sullo scenario collettivo. Se, come si è sempre riconosciuto, la vera “materia prima” del Paese è il suo “capitale umano”, c’è da chiedersi che cosa lo ostacola, lo deprime e lo porta per disperazione ad emigrare.
Nelle analisi delle parti sociali, nelle richieste urgenti di riforme che arrivano dalle categorie produttive non manca mai, anche se quasi sempre aggiuntiva e complementare, la giaculatoria di “meno burocrazia”. Una necessità sentita e ripetuta, anche se accompagnata dalla rassegnata consapevolezza che, nel Paese dei gattopardi, “tutto cambia purchè nulla cambi”. D’altronde è dal primo governo Pella (anno di grazia 1953) che esiste il “Ministero per la Riforma Burocratica”, allora affidato per primo all’Avvocato Generale dello Stato Salvatore Scoca. Nel corso dei decenni il Ministero ha, per pudore, cambiato nome diventando quello per la “Riforma della Pubblica Amministrazione” approdando poi alla dicitura di “Funzione Pubblica”. Si è aggiunto adesso il “Ministero della Semplificazione Legislativa”, in cui il titolare, il pur vulcanico Calderoli, ha sì fatto un falò di molte leggi decadute, ma non è concretamente apparso altro se non una superficiale pettinata alla montagna regolamentare.
Eppure basta osservare la meraviglia che si dipinge sul volto dei corrispondenti stranieri quando si rendono conto che, a differenza dei loro Paesi, una nostra legge non entra mai immediatamente in vigore: nella stragrande maggioranza dei casi occorrono un regolamento attuativo al quale seguiranno protocolli interpretativi e quasi sempre numerose circolari esplicative… Dentro un linguaggio ormai esoterico, carico di rimandi incrociati e di rinvii ad altre disposizioni. Una giungla letterale, nella quale si muovono a proprio agio solo i “sacerdoti del cavillo”, gli officianti del rito misterico ed oscuro dell’interpretazione normativa.
Qualche anno fa l’Automobil Club lanciò un “grido di dolore”, provando in maniera irrefutabile che per il semplice acquisto di una qualsiasi macchina, utilitarie comprese, era da mettere nel conto una spesa di 500 Euro di “sola burocrazia” (contrapposti ai 30 Euro della Germania, ai 25 del Regno Unito, ai 5 della Polonia, agli 0 della Slovacchia). L’allora ministro Bersani reagì con le sue “lenzuolate”, eliminando i 40 Euro per l’obbligo del notaio (ma lasciando intatti gli altri 460). E non si sarà mai grati abbastanza all’allora ministro Bassanini che abolì la necessità di rinnovare ogni tre mesi il certificato di morte. Tuttavia, nonostante interventi estemporanei, la bulimìa certificatoria e regolamentare ha continuato a gonfiarsi. Aveva ragione Giulio Tremonti, quando stava all’opposizione, a lamentare la crescita quotidiana di qualche chilometro della normativa fiscale: salvo poi dimenticarsene al governo. Al cittadino profano che si inoltra incautamente nella dichiarazione dei redditi è sconsolante vedersi imporre quattro volumi di “istruzioni per la compilazione” quando in altri Paesi dell’Occidente si superano a malapena le due paginette.
D’altronde diventa immediata la reazione di durissima critica alla politica, che non opera e non riforma. E tuttavia la stessa politica, pur quando è animata dalle migliori intenzioni di servizio al bene comune, si trova insensibilmente avviluppata nella rete infernale della burocrazia regolatoria da esserne fatalmente prigioniera, se non vittima designata. I ministri e i parlamentari cambiano, secondo le democratiche scelte del popolo sovrano: ma, impermeabile ad ogni mutamento, resta il corpaccione rigorosamente “bipartisan” che si autoperpetua e si moltiplica per via autoreferenziale, inventandosi sempre nuove funzioni e nuovi organismi che alla lunga finiscono per devastare irrimediabilmente i conti pubblici.
Ed è intorno alla moltiplicazione parassitaria e normativa che si è costituito un ceto dirigente avido e fortissimo che, nell’intreccio di relazioni e di scambi opachi, esercita senza responsabilità il vero potere decisionale, favorendo per sua natura quell’endemica corruzione che, scendendo giù giù per gli rami, arriva all’abitudine delle micro tangenti degli uffici dei più piccoli Comuni. Ma non dovrebbe comandare la politica ? Forse la risposta più chiara arriva dall’ispida ironia con cui l’appena scomparso Mino Martinazzoli ricordava i suoi tre anni da Guardasigilli, dicendosi orgoglioso di aver finalmente raggiunto, tra mille resistenze, il risultato di unificare il formato delle buste per l’invio degli atti giudiziari.
La Giustizia, appunto. Le inchieste e i processi a Berlusconi, per giusti che fossero, hanno tuttavia costituito per decenni lo splendido e inconfessabile alibi per non chiedere conto alle corporazioni in toga dei ritardi, delle inciviltà e delle rilevanti diseconomie prodotte dalla mala amministrazione della giustizia. E la chiassosa compagnia di giro forcaiola ha sovrastato in nome della “legalità”, la sistemica illegalità perpetrata nell’ambito civile e amministrativo. La giustizia civile ha tempi eterni e imperscrutabili, tanto da venire “privatizzata” dagli arbitrati e da magistrature onorarie. E al cittadino normale secca scoprire che anche dalle sue tasse arriva il pagamento delle robuste multe che le Corti europee comminano all’Italia per “ritardata giustizia”.
E se qualcuno si azzarda a voler conoscerne i responsabili, ci si ammanta dietro l’ineccepibile coacervo di norme, procedure e regolamenti, un mare fangoso nel quale nuota a meraviglia la legione leguleia che prospera gioconda nel paese degli Azzeccagarbugli.
Ma è proprio necessaria l’incrostazione normativa oppure, come dicevano i latini, summum ius, summa iniuria? Se è permesso un riferimento storico non inutile, sembra proprio di essere a Bisanzio. Lì l’imperatore Giustiniano passò alla storia per la sistemazione complessiva del diritto e della legge : eppure in realtà (come racconta lo storico ufficiale di corte Procopio di Cesarea che, nel disgusto morale verso quanto vedeva, ne lasciò testimonianza nelle “Storie Segrete”) di processi e di sentenze si faceva aperto mercato, la corruzione trionfava, e, nel bipolarismo feroce tra “Verdi” e “Azzurri”, la guerra intestina per il potere non si arrestava davanti a nulla.
E’opinione diffusa che ci troviamo a una svolta, che sta finendo un ciclo politico, anche se non si scorgono all’orizzonte i “profeti del nuovo”. Serve solo la “crescita”, una necessità vitale già dall’altro ieri. Eppure se gli indefessi inventori di obblighi e di adempimenti (quante firme su foreste di carta si sono fatte per la “privacy”?) avessero fabbricato negli anni fiammiferi o cavatappi , almeno sarebbero prodotti fisicamente vendibili. Qual è la commerciabilità di disposizioni e circolari nella competizione internazionale ?
La zavorra regolamentare pesa in particolare sulle generazioni produttive. Come mai da noi non sono mai emersi un Bill Gates o uno Steve Jobs ? Eppure è difficile sostenere che manchi del tutto in Italia una diffusa creatività giovanile. Solo che nei tantissimi garage o sottoscala dove magari si esercita un nuovo fervore inventivo, gli sconosciuti possibili protagonisti non hanno mai ricevuto la visita di banchieri interessati al nuovo e disposti a credere e a investire sul futuro: al massimo è arrivato un ottuso burocrate a pretendere un’astrusa certificazione o a sanzionare la violazione di una norma qualsiasi.
Tocca allora alle generazioni produttive e ai giovani che si affacciano in precariato perenne alla stagione del lavoro affrontare e disboscare la giungla normativa e regolamentare che li soffoca, attaccare il regime parassitario e saper porre in termini ultimativi la domanda sostanziale: come mai gli altri Paesi dell’Occidente vivono con un decimo delle leggi e delle norme e hanno una giustizia certa e rapida, che sanziona le colpe e riconosce i diritti ? E perché solo noi siamo condannati a portare il peso di una zavorra che deprime la creatività e l’avvenire ?
E’ una rivolta possibile rispetto ad una rassegnata impotenza: con una sola incognita, ovvero il tempo. La crescita serve adesso, il taglio allo Stato barocco e improduttivo serve adesso. Anche perché se si delega il compito al confuso coacervo dell’attuale classe dirigente si aspetterà invano. Un piccolo, significativo esempio: l’ultimo atto dell’ultimo governo “tecnico” (quello guidato da Lamberto Dini) fu il compiaciuto annuncio in Parlamento nel febbraio del 1996 dell’avvenuto scioglimento della G.I.L (la Gioventù Italiana del Littorio, eredità del fascismo). Peccato che l’abolizione della GIL fosse stata stabilita dall’Assemblea Costituente della Repubblica nata dalla Resistenza nel 1947. E che ci erano voluti 49 anni e sei mesi per giungere al concreto atto definitivo. Nel frattempo almeno tre generazioni di burocrati avevano operato (di certo in piena correttezza) per dismetterne i beni, riattribuirne le funzioni, assegnare gli eventuali cespiti allo Stato.
Tutto regolare, nel rispetto delle leggi, dei codici e delle pandette: ma se l’andazzo è questo, con il sovraccarico regolatorio che ci ritroviamo non si dà ordine e certezza del diritto ad una società viva e vitale; la si condanna a quella stabilità immobile ed ordinatissima che regna sovrana nei cimiteri.