C’è un virus tipico di ogni discepolo e ogni religione, che non è mai estinto. Si tratta del virus degli scribi e dei farisei. Oggi potremmo dire che «gli scribi e i farisei» c’erano una volta, o che il loro comportamento riguarda solo i preti di oggi; può essere visto, insomma, in chiave anticlericale. Ma c’è qualcosa di più profondo: lo scriba e il fariseo che si annida in ognuno.
Tutto il capitolo 23 del vangelo secondo Matteo è un capitolo sull’ipocrisia, il “virus” tipico della persona religiosa, ma non solo. La legge dell’apparire è in contraddizione con ciò che uno sente. Vale dappertutto: nella sinagoga, in chiesa, nell’ufficio, nella politica.
Ciò che Gesù denuncia degli scribi e dei farisei, noi possiamo facilmente applicarlo agli altri, anche ai preti eventualmente. Non dimentichiamo però che Giove ci ha dato due bisacce: i difetti che vediamo nella bisaccia sulle spalle di chi ci sta davanti, sono esattamente quelli che stanno sulle mie spalle e che non vedo. La descrizione degli scribi e dei farisei ci fa da specchio per vedere quel male radicale che si annida dentro di noi e che poi emerge ovviamente anche nei capi, o in quelli riconosciuti tali, perché tutti si rispecchiano in quelli.
Matteo 23, 1-12
Gesù si rivolse alle folle e ai suoi discepoli dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filatteri e allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare rabbì dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare rabbì, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare guide, perché uno solo è il vostro maestro, il Cristo. Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato».
Questo è un testo di grande libertà interiore. Libertà a cui non si arriva attraverso le denunce di altri, ma tramite lo snidamento di quel male sottile che sta dentro ciascuno: l’incoerenza tra il dire e fare («dicono e non fanno»), del voler apparire a tutti i livelli, dell’essere maestri, padri, signori, dell’essere quelle persone che, tutto sommato, dominano. Si può prevalere sull’altro con la cattiveria, ma c’è anche un modo di prevalere sugli altri di cui non ci si accorge.
È quello di usare il bene per dominare e servirsi degli altri come piedistallo, invece che per unirsi agli altri in un servizio reciproco. Per cui tutto il bene che abbiamo è ridotto a male da quest’ipocrisia. Si possono fare un sacco beneficenze purché ti mettano la lapide, purché si abbia un ritorno di immagine: allora anche il bene è strumentalizzato al male. A questo tutti noi uomini siamo sensibili perché è determinante per noi essere visti: allora cerchiamo la stima e la vanagloria che ci viene dagli altri, invece di considerare la vera stima che dobbiamo avere di noi stessi: cioè che siamo figli di Dio.
Gesù si rivolse alle folle e ai suoi discepoli dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei.
Mosè e colui che diede le Dieci parole, le parole di vita dettate da Dio. Il posto di Mosè è dunque occupato da quelli che potrebbero essere definiti teologi, cioè chi interpreta la Scrittura, e dai farisei, cioè coloro che devono osservarne i precetti. Innanzitutto, va notato che qualcosa non torna: c’è uno che «deve dire» e l’altro «osservare».
Ma sotto c’è qualcos’altro di più sottile: colui che spiega non deve mai prendere il posto di ciò che spiega. Se spiego il Vangelo non sono io il Vangelo. Nella spiegazione – siccome è un’interpretazione o una traduzione – si può tradire molto, basta isolare una parola dal contesto e gli si fa dire anche il contrario. Vediamo, per esempio, i giornali e la politica, cioè mezzi che si fondano sulla spiegazione diversa delle stesse cose. Ogni imbroglio avviene sulla spiegazione perché ogni cosa è ma la spiegazione riesce a dire anche il contrario di ciò che è.
Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno.
Gesù, almeno in questo caso, si limita a mettere in luce che il loro errore fondamentale è quello di dire e non fare, l’errore fondamentale di noi tutti. Un atteggiamento che significa svuotare la Parola. Vuol dire avere utilizzato quella Parola soltanto per avere delle sensazioni religiose e intellettuali che ci fanno sentire più bravi, ma non aver fatto ciò che la Parola sostiene. Sono dunque in contraddizione tra ciò che dico e ciò che faccio. Quel che esprimo all’esterno non è ciò che penso o ciò che sono.
Questo capitare a tutti e si chiama incoerenza. L’incoerenza non deve far paura, perché fa parte di noi. Ciò che dobbiamo temere è che l’incoerenza diventa un sistema che si autogiustifica, che dice: «È giusto che sia così». E nessuno più se ne accorge. Fino a quando ci si accorge delle proprie incoerenze va bene, vuol dire che passo dopo passo si può cambiare. Invece se sistematicamente ci si accontenta – ed è un po’ la posizione intellettualistica di dire “le cose come stanno”, anche vere e corrette, ma non di seguirle – allora si cade nella contraddizione, svuotando di significato la cosa, anche vera e corretta, che si sostiene.
Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito.
La Parola di Dio è ridotta ad un insieme di norme, di leggi che valgono per gli altri, non è più quell’amore verso il Padre e i fratelli che fa vivere con gioia ma diventa un insieme di norme giuridiche e tabù pesantissimi. Invece, il giogo non è pesante ma soave e leggero, non è un fardello. Giogo vuol dire «qualcosa che congiunge»: è un’unione d’amore con lui che fa vivere con gioia la vita fraterna.
Spesso i credenti quando leggono il Vangelo lo intendono come un fardello. Il brano del «giovane ricco» che deve lasciare tutto viene interpretato come un peso. Diciamo «è terribile, guarda cosa ci impone Dio!», Infatti, se lo consideriamo un fardello, non faremo mai ciò che dice Gesù, non ci si può dare una legge così. Se invece uno capisce il grande dono della libertà dell’essere figli di Dio e dell’essere fratelli, e che questo è il vero tesoro, allora è tutta un’altra cosa: non è più un fardello, è il più grande dono che uno possa avere, cioè quello di essere libero dalle cose e usarle a servizio degli altri.
Tutte le loro opere le fanno per essere visti dagli uomini: allargano i loro filatteri e allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare rabbì dalla gente.
L’uomo ha bisogno di ammirazione e di stima. O scopre la sua identità nell’amore infinito che Dio ha per lui, e allora vive di questo e comunica agli altri stima e amore, oppure la mendica in tutti i modi da ciascuno. Anzi la carpisce. E lo fa utilizzando quelle cose che lo rendono ammirevole, cioè utilizzando i suoi doni invece che per amare e servire per attrarre ammirazione e sentirsi qualcuno. Essere visti da Dio dona la forza sufficiente per vivere, e vivere in verità.
Se invece si cerca l’essere visti dalle persone, allora si mendica lo sguardo di consenso: quasi che l’altro ti dia la patente per vivere. Per questo si dice «allargano i filatteri»: delle scatolette di cuoio, contenenti alcuni brani della Legge che si tengono sulla fronte e sul braccio sinistro, nei momenti di preghiera. Allora le fai più grandi per far vedere che sei devoto. Così «allungano le frange» delle vesti, in modo da apparire come persone pie. Essere pio oggi forse non serve poi tanto, ma in una società religiosa era importante (oggi forse è più utile apparire empio). L’importante è comunque apparire. Così si spiega perché scribi e farisei cerchino i primi posti nei conviti, nelle sinagoghe, oggi diremmo nelle chiese (e i preti sono sempre ai primi posti, bisogna ammetterlo).
Se un vive di queste cose è grave, perché vuol dire che non farà mai una cosa vera ma solo quelle cose che gli procurano un riscontro. Se vuoi avere un riscontro non devi mai dire la verità, devi lodare e imbrogliare l’altro così che lui riconosca: «Tu sì che sei bravo, mi hai capito». Così si stabilisce un rapporto di falsità, di reciproco dominio: chi dipende dall’ammirazione dell’altro e chi si sente appagato dall’ammirare e dall’essere adescato, in qualche modo. E questo vale per tutti i livelli: nella preghiera, nei conviti con gli amici, nelle piazze. Cioè davanti a Dio, agli altri e alla società.
Ma voi non fatevi chiamare rabbì, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli.
Rabbì deriva da Rav, che significa grande. È il titolo che si dà al maestro. Ma nessuno è maestro e chi vuole fare discepoli è grave per lui ed è grave per i suoi discepoli. Tutti abbiamo un unico maestro interiore: è lo Spirito di verità, che ognuno conosce.
Chi si fa dominare da un altro rinuncia al suo spirito di libertà, rinuncia ad essere uomo. È pieno il mondo di guru e di grulli: uno cerca proprio un maestro per essere imbrogliato. Ma il vero maestro è lo Spirito santo che suggerisce la verità tutta intera. Come dice Giovanni siamo tutti «teodidatti», cioè ammaestrati da Dio direttamente. C’è già nel nostro cuore la voce di Dio. Poi la confronteremo con gli altri, ma decidiamo noi, sperimentiamo noi, comprendiamo noi. Se togli questo ad una persona, lo privi del suo essere uomo e libero. Qualcuno che non lasciasse liberi davanti a Dio e agli altri, commetterebbe il peggior crimine, qualunque sia il fine per cui lo fa.
La sete odierna di maestri crea dipendenze orribili. È certo più facile seguire ordini, slogan, parole confezionate. Oggi, peraltro, abbiamo il grande maestro dei mass media. La ricerca di un maestro o di un guru, la venerazione e il culto di una persona a cui si fa riferimento e su cui si centra la vita, sono il sintomo di una mancanza – avvertita o meno – di questo maestro interiore, quella cosa che da dentro ti guida e ti aiuta.
E non chiamate nessuno padre sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare guide, perché uno solo è il vostro maestro, il Cristo.
Il padre è il principio e l’origine della vita. Solo Dio è padre, perché tutti siamo figli e accettiamo di essere tali perché originati da qualcun altro.
Avere Dio come padre è il principio di libertà. Perché se non accetti tuo padre, non accetti te stesso come figlio, non hai lo spirito di libertà ma sei in contestazione con le tue radici. Uno solo è il Padre, ed è padre di tutti: quelli che stanno in Lombardia come quelli che vengono da altre parti del mondo. La parola solitamente tradotta con «maestro» compare in realtà come «guida», cioè chi conduce, il leader. Gesù ci dice di non chiamare nessuno leader, se non il Cristo che ci conduce fuori da tutti gli ovili verso la libertà. Per questo il Cristo è il Messia liberatore.
Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato.
Il pericolo è di voler fare da maestri, da padri e da guide, invece di accettare che siamo guidati da uno spirito interiore, che c’è un Padre nei cieli e un’unica guida che è Gesù. Se uno vuole allora essere grande, si faccia al contrario il servo di tutti perché tutti sappiano scoprire la loro liberà interiore.
Mettersi sopra gli altri è il contrario dell’amore, se usi i tuoi doni per dominare distruggi te stesso e gli altri. Se invece ti abbassi e ti umili (l’umiltà è humus, cioè uomo), ecco che sarai innalzato a figlio di Dio, potendo godere della sua gloria. Chi si mette al centro verrà condannato non tanto da chissà chi, ma semplicemente dal corso delle cose, sprofonderà in se stesso. Cadere nei propri abissi è la cosa peggiore che possa accaderci.
*biblista e scrittore
Il testo è la sintesi redazionale della lectio divina tenuta nella Chiesa di San Fedele in Milano nel corso di vari anni. L’audio originale può essere ascoltato qui.
Nella foto, Alberto Beneventi, «Muro», tecnica mista su tela, 2010 – per gentile concessione di Galleria Blanchaert