La grande bufala delle class action all’italiana

La grande bufala delle class action all’italiana

Una su mille ce la fa. È il caso di dirlo. Qualche giorno fa il tribunale di Torino ha ammesso la prima class action italiana contro una banca, la Intesa Sanpaolo. Secondo Altroconsumo, che ha promosso l’azione giuridica, sarebbero state applicate spese di commissione e di gestione troppo elevate ai conti correnti – quelli senza fido – andati in rosso. La class action riguarda, in teoria, decine di migliaia di correntisti che hanno visto assegnare al proprio conto corrente, dal 15 agosto 2009, spese eccessive, e del tutto impreviste. Il giudice, dichiarando ammissibile il ricorso, dovrà ora assegnare all’associazione le modalità con le quali pubblicizzare l’azione legale: spot su reti nazionali, pagine acquistate sui principali quotidiani, tutto quanto, insomma, dovrà essere espletato secondo le disposizioni del tribunale.

Però, mentre Altroconsumo esulta, molte altre associazioni dei consumatori incassano cocenti sconfitte per le loro class action proposte e rimaste sulla carta.  Quella che più brucia è l’ultima bocciata dal giudice e accolta come una buona novella negli uffici dell’ingegner Mauro Moretti. È di qualche settimana fa infatti il “niet” alla class action dei pendolari contro Trenitalia. I diritti lesi dai ritardi e dalle corse annullate – questa la spiegazione del tribunale – non sono omogenei tra di loro. E quindi niente azione legale.

Trenitalia brinda, ma non è la sola. Abortita anche la causa collettiva contro la società Autostrade promossa per difendere i diritti di migliaia di cittadini rimasti al freddo e al gelo lo scorso inverno. Nulla da fare anche per i numerosissimi disservizi turistici puntualmente denunciati dai consumatori alla fine di ogni estate. Niente di fatto nemmeno per la denuncia del Codacons contro la Bat Italia responsabile, secondo l’associazione, di aver aggiunto oltre duecento additivi alle sigarette prodotte per aumentare la dipendenza da nicotina. Il fumatore sa a cosa va incontro – è la motivazione del giudice respinta con stizza dal Codacons – e quindi non è ammissibile la class action. Percorso tutto in salita, quindi, per uno strumento di tutela che in altri paesi europei e negli Stati Uniti è una certezza per i cittadini.

A ben vedere quella per ora vittoriosa contro Intesa è soltanto una delle tre isolate azioni giudiziarie collettive messe in campo in Italia da quando è stata introdotta la versione italica della class action americana. Troppi limiti e passaggi burocratici mettono a rischio da noi quello che negli States è lo strumento per eccellenza usato dai “deboli cittadini” per bacchettare i poteri forti. Basti pensare che nel 2009 sono state 217 le class action a stelle e a strisce, nel 2010 erano 239 e ben 260 nel 2011.

Il Codacons ha messo a segno le uniche altre due azioni collettive ammesse dai tribunali: una riguarda la società che ha prodotto il test fai da te per individuare l’aviaria, test inefficace, secondo l’associazione. L’altra ha nel mirino il ministero della Pubblica istruzione e le famose classi affollate denominate “classi pollaio”: «Grazie a questa azione – dice l’avvocato Marco Ramadori del Codacons – il Tar ha obbligato il ministero dell’Istruzione a realizzare un piano per l’edilizia scolastica perché l’affollamento delle classi determina una situazione di insicurezza e di pericolosità per gli alunni». E se non dovesse farlo? «I termini scadono in questi giorni e del piano non c’è traccia. Il dispositivo del giudice prevede che, in questo caso, dovrà essere nominato un commissario ad acta».

È di queste ore il ricorso vinto dalla associazione Agorà digitale contro la regione Basilicata: condannata a subire una class action perché non ha utilizzato la Pec, la posta elettronica certificata, ormai obbligatoria. 

Ma per tre approvate, moltissime altre restano al palo. E c’è un altro aspetto: dopo la dichiarazione di ammissibilità, al promotore della class action spetta l’oneroso compito di diffondere la propria iniziativa secondo tutti i modi indicati dal giudice nel dispositivo della sentenza. È il motivo per cui in Italia gruppi di cittadini non intraprenderanno mai questa strada: chi può infatti permettersi di sostenere i costi di pubblicità sui quotidiani e spot in tv?

Non solo. La class action all’italiana ha un altro paradosso: il cittadino che, venuto a conoscenza della causa collettiva, decide di parteciparvi perché ritiene di essere stato leso, dovrà dichiarare la sua adesione attraverso una serie di passaggi burocratici. Perdita di tempo e di denaro. E così, rinunciano. Tanto per intenderci, una delle poche class action attive, quella contro il test dell’aviaria, conta un solo cittadino partecipante. «In Italia non esistono strumenti risarcitori ma il cittadino che dovesse vincere riavrà solo la somma spesa. In questo caso i 15 euro del test acquistato – ci spiega l’avvocato del Codacons – e voi andreste alle Poste per fare una raccomandata perdendo tempo e spendendo soldi per riavere soltanto 15 euro? Senza contare che in caso di sconfitta il cittadino potrebbe essere citato per danni dalla società contro la quale voleva battersi».

Un fallimento. Ne sono convinti all’Adiconsum, una delle più note associazioni di tutela dei consumatori, che non hanno mai nemmeno tentato a intraprendere questa strada. «Non siamo come altre sigle di tutela che smaniano per stare sui giornali, e a volte basta semplicemente l’annuncio di una class action per ottenere un titolo di apertura. Queste cause collettive non sono serie, la legge italiana è deficitaria e non tutela davvero i cittadini. Noi ci chiamiamo fuori».