La polizia tributaria: sempre più gettito, sempre meno giustizia

La polizia tributaria: sempre più gettito, sempre meno giustizia

L’esecutività dei ricorsi a 60 giorni, approvata due giorni fa da Equitalia, è uno strumento che, «se è indubbio che velocizza i tempi di riscossione, sposta decisamente l’equilibrio verso l’amministrazione finanziaria», spiega a Linkiesta Enrico Zanetti, commercialista e direttore di Eutekne.info, che denuncia: «Con queste norme il rapporto tra Entrate e contribuente vira sempre di più sulla riscossione, e quindi sul gettito, rispetto alla giustizia tributaria».

Da due giorni è entrata in vigore l’esecutività dei ricorsi a 60 giorni. In pratica, si riducono i tempi per pagare il dovuto a Equitalia, o per fare ricorso e contestare. Attilio Befera, numero uno delle Entrate, ha però detto che la procedura amministrativa durerà comunque almeno 6-7 mesi. Tanto rumore per nulla?

L’allarmismo non è infondato, ma è tardivo e esagerato. L’esecutività a 60 giorni una novità la cui genesi risale all’estate 2010, che ha già provocato in ambienti tecnici un forte dibattito dai toni critici, non senza qualche tensione tra amministrazione finanziaria e commercialisti, perché nella versione originaria il provvedimento era inaccettabile per l’aggressività che determinava sui contribuenti. Con la conversione in legge del Decreto Sviluppo sono stati apportati alcuni correttivi, che, pure lasciando aperti alcuni problemi, hanno previsto – ad esempio – che in caso di ricorso le procedure di esecuzione forzata non possano iniziare prima di 180 giorni dalla presa in carico dell’accertamento da parte dell’agente di riscossione. Atto che, a sua volta, avviene 90 giorni dopo la notifica dell’accertamento. In totale si tratta quindi di 270 giorni. In pendenza di ricorso, inoltre, l’obbligo di versamento è stato ridotto dal 50 al 30% delle somme richieste. È indubbio che la misura rende più veloci i tempi di riscossione, ma è altrettanto vero che si sposta l’equilibrio decisamente verso l’amministrazione finanziaria.

La ratio della norma è: prima paghi, poi si va a contenzioso.

È l’inevitabile corollario che deriva da anni di legislazione, dal 2006 in poi, in cui si è sempre incrementata l’efficacia delle procedure senza mai intervenire sull’efficienza della giustizia tributaria. Il rapporto sta virando sempre di più sulla riscossione e non sulla giustizia, non si punta alla lotta all’evasione ma al recupero di gettito. Alle associazioni degli imprenditori e dei consumatori dico che il dibattito andava effettuato prima, non a buoi già scappati, solo a ridosso dell’entrata in vigore della norma.

E se il contribuente ha ragione?

C’è un danno finanziario. Se un imprenditore paga per evitare l’esecuzione forzata, è chiaro che se di lì a un anno ottiene ragione, si ritrova esposto per 2 anni per somme che sono considerevoli. Se si pensa che nel 41% dei casi la giustizia tributaria dà ragione al contribuente, non si fatica a pensare che il contenzioso possa diventare il discrimine, per un’azienda, tra il rimanere in sella o meno, soprattutto in un momento di tensione finanziaria come l’attuale.

Quali sono gli ambiti di più difficile interpretazione in materia di contenzioso?

Uno dei problemi più gravi è che le procedure e le sanzioni vengono sempre più inasprite pensando che gli evasori compiono un determinato comportamento. Ci sono due tipi di evasione molto gravi, rispetto ai quali è giusto essere il più stringenti possibile, e sono le frodi fiscali in cui si inventa una documentazione fittizia, e l’evasione per occultamento, cioè il nero. Infine, c’è un terzo modo, cioè l’evasione da disconoscimento costi: nella dichiarazione non viene contestata l’omissione, ma che determinati costi non sono realmente deducibili. Il punto è che qui siamo in presenza di un’evasione “giuridica” e non materiale. Quindi, la natura interpretativa della norma, in un contesto complesso come quello italiano, quando si tratta di evasione sul disconoscimento dei costi dichiarati bisogna andare molto più cauti rispetto agli altri modi, sia sul fronte della riscossione che sul fronte penale. Tutti hanno in mente disonesto che occulta o il criminale che froda, ma una parte importante degli accertamenti viene fatta non sull’emersione del sommerso, ma su ciò che viene dichiarato.

Che fine ha fatto il redditometro?
Noi continuamo a caldeggiare il redditometro dal 2008, quando la stessa amministrazione finanziaria titubava, preferendo gli studi di settore. Da un anno sembra che uomini di Befera l’abbiano messo a punto, ma non si conoscono ancora i dettagli. Il timore è che si tratti di uno strumento statistico interessantissimo, ma difficilmente gestibile nella sua natura di strumento di accertamento con presunzione contro il contribuente. Di certo, per quanto possa essere uno strumento utile in teoria, potrebbe generare delle tensioni incredibili con il contribuente. Si pensi che, a Nordest, 6 contribuenti su 10 parlano apertamente di un’opportunità di sciopero fiscale. 

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