Una ragazza parla con Allah,raffigurato come un uomo anziano con una lunga barba bianca. È questo il fotogramma incriminato di Persepolis, il cartone animato che lo scorso 10 ottobre ha scatenato una serie di violente ripercussioni contro l’emittente tunisina Nessma TV, “colpevole” di averlo trasmesso in prima serata. Il film d’animazione, premiato a Cannes nel 2007, è sempre stato osteggiato dalle frange estreme dell’Islam, a causa delle sue critiche al fondamentalismo e della raffigurazione di Allah, vietata dal Corano.
Dopo la messa in onda del film circa trecento salafiti hanno assaltato la sede dell’emittente: la polizia li ha allontanati, fermandone una cinquantina. Il maggiore partito islamico della regione, Al-Nahada, ha condannato l’episodio, ma l’ha minimizzato definendolo “un caso isolato”. Tarak Ben Ammar (produttore cinematografico ma anche nel cda di Mediobanca) socio di Nessma Tv insieme a Silvio Berlusconi (entrambi detengono il 25%, il restante 50% è in mano agli affaristi locali Nebil e Ghazi Karou), ha invece accusato la politica: «Queste azioni deplorevoli devono richiamare l’attenzione sulla crescita del potere nella regione di alcune forze politiche che non sono per il dialogo e per la libertà».
L’episodio si inserisce in un quadro già molto delicato per il paese nordafricano. Il prossimo 23 ottobre, infatti, i cittadini tunisini saranno chiamati ad eleggere un’assemblea costituente: sarà il primo voto da quando, nello scorso gennaio, Ben Ali venne rovesciato dalle proteste popolari. Da quel momento, in Tunisia come in Egitto, i musulmani conservatori hanno guadagnato sempre più spazio e margine d’azione.
Gli effetti dell’onda lunga della “primavera araba” si fanno intanto sempre più sentire. Uno studio realizzato da Geopolicity per il Fondo Monetario Internazionale ha infatti calcolato in 55 miliardi di dollari la perdite totali per gli stati in cui ci sono state le rivoluzioni di piazza negli ultimi mesi.
Le perdite sono state maggiori nei Paesi in cui gli scontri sono stati più violenti: Libia e Siria su tutti, seguiti da Egitto, Tunisia, Bahrain e Yemen. Nel dettaglio, le rivolte hanno bruciato 20,6 miliardi di dollari nei Pil dei paesi e altri 35,3 miliardi nel bilancio della finanza pubblica, a causa del calo delle entrate e dell’aumento dei costi.
Paradossalmente, le rivolte hanno invece rimpinguato le casse di altri stati vicini, in particolare di quelli produttori di petrolio. Gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita e il Kuwait hanno visto crescere il loro Pil insieme al prezzo del greggio. Un barile, valutato ad inizio 2011 circa 90 dollari, a maggio era già salito a 130. Ora il prezzo è sceso nuovamente, attestandosi attorno ai 110 dollari. Secondo il report del Fondo Monetario Internazionale, il 2011 ha portato nelle casse di questi stati, tra gennaio e settembre, circa 38,9 miliardi di dollari.
Come detto, dall’altro lato della barricata le cosesono andate in direzione totalmente diversa. Il prodotto interno lordo della Tunisia, dove la protesta è cominciata verso la fine del 2010, è sceso di 2 miliardi di dollari. I settori più colpiti sono stati quello minerario, quello turistico e quello ittico. Il bilancio fiscale del governo ha segnato un rosso di 489 milioni di dollari, con una perdita calcolabile attorno al 5% del Pil. E’ andata ancora peggio alla Libia, dove le rivolte, la guerra ed il crollo delle esportazioni hanno portato un calo del Pil di circa il 30%. In Egitto, invece, mesi di tumulti hanno alzato la spesa pubblica a circa 5,5 miliardi di dollari. I Paesi nordafricani, dunque, si trovano ad affrontare, oltre alla ricostruzione politica, una difficile sfida a livello economico.