Marchionne rinvia, l’indotto Fiat in Piemonte muore

Marchionne rinvia, l’indotto Fiat in Piemonte muore

«Il lancio commerciale dei nuovi modelli Alfa Romeo e Jeep è previsto per il terzo/quarto trimestre del 2012». Era il 23 dicembre del 2010, il giorno dell’accordo (senza la Fiom) per Mirafiori, e la Fiat comunicava i nuovi piani per lo stabilimento torinese. Nel mese successivo si sarebbe capito che si trattava di due suv a marchio Jeep e Alfa. Ottobre 2011, contrordine, il Lingotto annuncia in un comunicato, intestato col doppio stemma Chrysler e Fiat: «La produzione del primo modello, un suv a marchio Jeep, è prevista per la seconda metà del 2013». Quasi un anno di ritardo. Confermata la Mito e il suo restyling, volato invece in Serbia il monovolume L0, Mirafiori ha perso due dei cinque modelli prodotti fino al 2010 (Punto e Multipla), ne ha mantenuti altri due, Musa e Idea, quasi al capolinea, e si prepara a un lungo periodo di cassa integrazione. Ma a far le spese dello stallo del gigante Mirafiori e delle incertezze su Fabbrica Italia non sono solo i lavoratori delle Carrozzerie (e i più silenziosi degli Enti centrali, che – alla luce della nuova joint-venture – si domandano quali prospettive avrà la progettazione in Italia), sono una fitta schiera di aziende dell’indotto che in questi giorni comunicano esuberi o ricorrono alla cassa.

È il caso, per esempio, della Lear, multinazionale con oltre 90mila dipendenti sparsi in 35 nazioni, che a Grugliasco realizza sedili esclusivamente per Fiat, e che ha aperto la procedura di mobilità per 464 lavoratori su 579. Della Teksid di Carmagnola, che fa parte del gruppo Fiat e produce scocche: ha chiesto la cassa integrazione per la metà dei dipendenti a fine ottobre e ha deciso di sospendere temporaneamente la produzione la prima settimana di novembre (814 dipendenti in cassa). Arranca l’intero distretto automotive; la Pininfarina, la storica carrozzeria torinese, che non è fornitrice Fiat, non ha più la possibilità di ricorrere agli ammortizzatori e ha deciso di chiudere la produzione auto di San Giorgio Canavese e di lasciare a casa 127 lavoratori.

«Siamo in balia dei piani fumosi di Marchionne. E delle sue non scelte», dicono in coro gli operai della Lear, dove si assemblano i sedili di Idea e Musa e vengono cuciti gli interni di Maserati. «Ci avevano promesso il suv di Mirafiori, ma poi hanno preferito farci stare a casa ancora un anno. Ora, rischiamo di starci per sempre!», sbotta un altro operaio davanti all’Unione industriale. In realtà, attendono prima l’arrivo del modello Maserati alla ex Bertone: dovrebbe dare un po’ di respiro, ma non ci sono ancora date certe, forse a fine 2012, ma difficilmente potrà garantire la piena occupazione. Oltre ai tempi, sono da confermare i volumi: saranno davvero le 50 mila vetture all’anno previste? Intanto, il 4 novembre per gli operai della Lear cesserà la cassa integrazione straordinaria. «Occorre trovare una soluzione che preveda ammortizzatori sociali» in modo da traghettare gli operai al 2013, ha sottolineato Vittorio De Martino della Fiom. I sindacati respingono i licenziamenti e hanno chiesto 8 mesi di cassa in deroga (più 12 di cassa speciale per permettere una riorganizzazione aziendale). Il 27 ottobre è stato firmato l’accordo per gli 8 mesi di cassa in deroga, ma la Regione ha garantito la copertura unicamente per i primi due mesi, mentre per i restanti sei regna l’incertezza.

Il picchetto degli operai della Lear durante la protesta di fronte all’Unione industriali di Torino

«Le aziende che fanno ricorso agli ammortizzatori da metà 2008 – ha osservato Federico Bellono, segretario provinciale Fiom – non hanno gli strumenti per reggere tempi di crisi così lunghi. La Lear è una multinazionale, ha spalle meno stretto di altre; lì un percorso è stato almeno avviato. Altre rischiano, invece, di non farcela». Aziende «decotte» dell’indotto sono diverse, per esempio, la Saturno di Grugliasco (arredo interni auto) in amministrazione straordinaria (399 dipendenti), l’Ages di Santena (gomma per interno motori) in amministrazione straordinaria (255) e la Way Assauto di Asti (ammortizzatori), fallita (237). Nell’automotive piemontese il 60% delle imprese sta ricorrendo alla cassa integrazione coinvolgendo 20 mila lavoratori. Fim e Uilm rivendicano, però, che senza l’intesa firmata per Mirafiori non ci sarebbero nemmeno le basi per uscire dal tunnel. «Ma bisogna intervenire al più presto – ha spiegato Claudio Chiarle, segretario Fim Torino –, se no in 18 mesi rischiamo di portare l’indotto a un livello di indebolimento tale da rendergli difficile una ripresa una volta riavviata la produzione alle Carrozzerie. Per fortuna, si produrrà un suv Jeep più piccolo e rivolto al mercato europeo (andrà probabilmente a sostituire la Sedici), che, insieme al restyling Mito, coinvolgerà maggiormente il nostro indotto. Nel frattempo sarebbe utile ipotizzare per Mirafiori un modello transitorio, per esempio l’L0. Sappiamo che in Serbia esiste una leggera difficoltà nell’avviamento degli impianti. Portiamolo temporaneamente in Italia, poi lo restituiamo a Kragujevac».

Più complicata rispetto alla Lear, la situazione della Pininfarina. «Morto Andrea (deceduto il 7 agosto 2008, in seguito ad un incidente stradale, ndr), siamo naufragati a causa di una dirigenza incompetente che mentre noi stavamo in cassa si aumentava gli stipendi», dice un lavoratore davanti all’Unione industriale, dove il 17 ottobre l’azienda ha confermato di cessare l’attività produttiva, sostenendo che non ci sarebbero le condizioni di mercato per proseguire (vuole puntare su ricerca e ingegneria al Centro stile di Cambiano, il quartier generale). Dalla riunione non è uscito nulla di buono e fuori la tensione tra i lavoratori è salita, chiedevano di incontrare l’amministratore delegato Silvio Angori, ma lui fuggiva via in auto mentre le urla «Vergogna, vogliamo lavorare!» rimbombavano in via Vela. Appena gli animi si sono ricomposti, non pochi dipendenti Pininfarina hanno fatto prevalere i sospiri: «Ah, un tempo era tutto diverso». Una nostalgia dell’epoca d’oro: «Quando eravamo in 3 mila e sfornavamo modelli prestigiosi». Dalla Duetto alla Ferrari Testarossa. «Andrea e il padre Sergio, giravano spesso in fabbrica. Loro sì che ne capivano. Sugli altri stendiamo un velo pietoso».

«Andrea», proseguono, «voleva portarci l’auto elettrica. Morto lui, hanno svenduto il progetto a un finanziere francese. Che beffa! La costruiscono 57 nostri ex colleghi in un nostro vecchio stabilimento…». Si tratta della fabbrica di Bairo Canavese, data quest’anno in affitto alla torinese Cecomp, che produce per Vincent Bolloré l’elettrica Blue Car. Il sito di San Giorgio era l’ultimo presidio industriale rimasto (la maggior parte dei 127 per cui è stata chiesta la mobilità opera qui, altri lavorano invece a Cambiano). «Rimango allibito – ha commentato Bellono, Fiom – dalle dichiarazioni di quanti, politici, amministratori o esponenti del mondo delle imprese, sostengono che era tutto previsto e inevitabile. La Pininfarina, magari non da sola, poteva avere un futuro nel campo dell’auto elettrica». E se in Piemonte si chiude, anche in Svezia la situazione diventa complicata. Nel 2013, «causa bassi volumi produttivi», cesserà la produzione dello stabilimento della joint-venture tra Volvo e Pininfarina a Uddevalla (ai 600 dipendenti sarà proposto il trasferimento a Goteborg o presso un’altra unità produttiva Volvo). 

Non sembra aver infuso ottimismo nemmeno lo sviluppo dell’alleanza Fiat-Chrysler, né l’investimento su Mirafiori. In una recente indagine coordinata dal Sistema informativo delle Attività Produttive della Regione Piemonte e dall’Ires Piemonte (leggi il rapporto integrale) su un campione di oltre 200 piccole e medie imprese, che costituiscono buona parte della filiera del comparto della componentistica, «meno del 20% giudica positivamente gli effetti dell’investimento su Mirafiori e gli effetti dell’accordo Fiat-Chrysler. Quasi il 30% del campione non ritiene che l’intesa potrà avere effetti significativi di alcun tipo».

Per approfondire:

Produzione Fiat, il 2011 è già l’anno peggiore

«Fiat ha un modello di sviluppo soltanto per l’America»

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