Un giorno, quando e se verrà quel giorno, uno Stato palestinese sarà nella posizione anche di negoziare l’accesso alle risorse, ma per ora «noi palestinesi siamo tagliati fuori dai negoziati sul gas». Sari Nusseibeh, presidente dell’università Al Quds di Gerusalemme, docente di filosofia islamica, è uno dei maggiori intellettuali palestinesi. Cosmopolita come è spesso l’elite palestinese (la sua famiglia è una delle più antiche del Paese), definito dal New York Times come «un uomo profondamente ammirabile», ha studiato a Oxford (dove ha incontrato e sposato Lucy Austin, figlia del grande linguista John Austin, maestro di John Searle) e a Harvard, ma ha anche lavorato come volontario in un kibbutz.
Figura di dialogo, come accade spesso in questi casi è considerato troppo moderato da una parte dei palestinesi e un falco travestito da colomba da una parte degli israeliani (fu arrestato per 90 giorni durante la prima guerra del Golfo nel 1991 senza che gli fossero mosse accuse formali ma secondo la stampa la ragione era che lo consideravano una spia dell’Iraq). Nusseibeh è quindi la perfetta incarnazione dell’intellettuale kantiano, quello che fa del «sapere audi», il pensare con la propria testa, l’inizio dell’Illuminismo. A Milano per la presentazione del suo ultimo saggio (“What is a palestinian state worth?” pubblicato dalla Harvard University Press) all’Alta scuola di economia e relazioni internazionali dell’Università Cattolica, Nusseibeh, considerato una sorta di Gandhi palestinese per la sua linea di opposizione non violenta, spiega di appoggiare la mossa di Abu Mazen che ha chiesto alle Nazioni Unite un riconoscimento dello Stato palestinese e di non essere preoccupato da una possibile nuova Intifada nel caso l’iniziativa non dovesse avere successo («i palestinesi sanno benissimo che non sono le parole a far levare i posti di blocco israeliani»).
Infatti le ragioni per essere ottimisti sulla creazione di due Stati non sono molte: gli Usa fra errori di valutazione e le elezioni presidenziali dell’anno prossimo non sono nella posizione di spingere per un accordo. Israele è sempre più isolato dopo che Turchia ed Egitto hanno raffreddato i rapporti e i palestinesi sono sempre più divisi fra gli islamici di Hamas nella Striscia di Gaza e i laici dell’Autorità palestinese in Cisgiordania. «La situazione sul campo sta facendo dei passi indietro» lamenta Nusseibeh, «soprattutto dal punto di vista degli insediamenti» dei coloni israeliani (sono circa 600.000 i coloni che vivono sulle terre catturate nel 1967 e Israele ha una popolazione ci circa 7,5 milione di persone). Come dice Daniel Levy, ex consigliere di Ehud Barak ora senior fellow alla New American Foundation, anche lui alla presentazione dell’ultimo saggio del filosofo palestinese, la soluzione dei due Stati «vent’anni fa era una cosa fattibile, ora è fuori dal tempo».
Cosa fare allora? Aspettare ancora? È possibile? «A Gaza e in Cisgiordania viviamo come in prigione» sottolinea l’intellettuale palestinese «non abbiamo libertà di movimento, non possiamo andare negli ospedali che vogliamo, raccogliere da soli le nostre tasse». Ma cosa accade quindi «se in un anno non abbiamo uno Stato palestinese?» si interroga Nusseibeh. Ecco allora la risposta: «Iniziamo nel frattempo ad espandere i diritti civili dei palestinesi». Quelli civili, non quelli politici visto che per ragioni demografiche i palestinesi potrebbero mettere in minoranza gli ebrei («e così potremmo cambiare la bandiera con la stella di David, far parte dell’esercito israeliano,…..»). Tutte prospettive viste con terrore da parte israeliana visto che Israele vuole restare un paese a predominanza ebraica. Tutte aspirazioni più che legittime ma «noi non possiamo aspettare altri 20 o 30 per una soluzione a due Stati».
D’altra parte, insiste Nusseibeh, uno Stato non è un fine in sé ma è semmai un mezzo per far crescere il benessere della popolazione. Per questo «potremmo iniziare a lavorare su un qualche tipo di federazione in maniera di poter dare maggiori diritti sia in senso verticale (agli esseri umani) che in senso orizzontale (all’Autorità palestinese)». In questa federazione i palestinesi avrebbero piena libertà di movimento come gli israeliani, ma poi ognuno eserciterebbe i diritti politici sono all’interno della propria entità politica. E a chi gli obietta che il passo successivo diventerebbe proprio quello di una richiesta di diritti politici da parte palestinese, il filosofo ex rappresentante dell’Olp a Gerusalemme non fa una piega: «sarebbe un’altra occasione per discutere del futuro dei due popoli»
E poi riprende a spiegare che «due stati federati avrebbero diritti civili per entrambe le parti e anche accesso alle risorse naturali». Un fattore non da poco già per le dispute sull’acqua che da sempre attanagliano queste terre. Ma che con l’affare del gas è diventato ancora più determinante. Un affare cominciato due anni fa quando sono stati scoperti, ad oltre 5.000 metri di profondità, nel Mare Mediterraneo, due enormi giacimenti, che potrebbero addirittura trasformare lo Stato ebraico in un esportatore di energia. I giacimenti sono in una zona contesa fra Israele, Libano e Cipro e dopo che Gerusalemme ha raggiunto un accordo con Nicosia, la Turchia ha minacciato fuoco e fiamme dicendosi pronta mandare le navi da guerra.
La possibilità che la proposta di una federazione abbia un seguito è legata a quanto i palestinesi la faranno loro e a quanta pressione sarà esercitata su Israele e, come si è visto, essere ottimisti è difficile. Anche se cose impensabili accadono ugualmente. Non solo la rivolta degli indignados israeliani che criticano le disuagiianze di un paese che, anche in un anno così difficile, cresce ugualmente del 4,8% («finalmente si parla di valori anche a sinistra e non solo a destra» sottolinea Levy) ma anche la clamorosa sentenza di qualche giorno fa in cui un tribunale ha autorizzato lo scrittore israeliano Yoram Kaniuk a non specificare alcuna religione sulla sua carta d’identità (un’anomalia visto che i cittadini d’Israele sono sempre categorizzati nei documenti come ebrei o arabi). Ecco forse perché, davanti all’ardua prospettiva di pace, questo grande erede del razionalismo di Avicenna e Kant può dire: «Sono una persona che crede ai miracoli».