Possibile mettere insieme pere e bulloni, più di quanto non abbia fatto nel suo pezzo il professor Campi? No, non è possibile. Per affiancare il Pd al Pdl, nel senso del puzzo di caserma, il professore è riuscito persino a citare Paola Binetti, l’esempio più illuminante di un organismo geneticamente modificato all’interno del Partito Democratico.
Per carità, nessuna colpa è attribuibile all’attuale deputatessa dell’Udc, che ha seguito disciplinatamente il percorso della sua coscienza, ma è davvero infantile rappresentare questo dissidio come la dimostrazione più piena dell’intollerabilità del Pd. Piuttosto, era più utile sottolineare il peccato originale, l’aver portato all’interno del partito una personalità così definita, del tutto priva di una anche minima sensibilità laica rispetto ai temi sensibili come quelli della vita e della morte. Che si dovesse arrivare a una separazione era ampiamente nelle cose e qui non c’entra nulla l’arroganza dei dirigenti democratici. La storia drammatica e tormenata di Eluana Englaro qualcosa ci dovrebbe aver lasciato.
Oltre che un’impresa che ruota attorno a un certo numero di idee e di principi ispiratori, un partito è anche il luogo delle regole. E avere delle regole è espressione piena di democrazia. Chi le tradisce, le calpesta, chi ne fa strame, è pregato gentilmente di accomodarsi alla porta. E se non di sua sponte, accompagnato da gentilissimi funzionari (nel Pd purtroppo prosperano ancora). Il professor Campi, naturalmente, intende dire che all’interno del Pd si punisce anche (e soprattutto) il dissenso intellettuale e questo, per la civiltà che ci meriteremmo, non sarebbe consentito. Ma nel caso del Pd, questo elemento non è mai pervenuto: il problema è (stato) semmai proprio l’inverso e basterebbe rivedersi un po’ la storia di questi ultimi anni, ma anche la recentissima, per apprezzare le centinaia di posizioni diverse che hanno (purtroppo) animato la vita del partito. Se c’è un non-partito, questo «è» il Pd. E forse anche il suo dramma.
Venendo adesso ai radicali, vero melodramma che si perpetua ora qui ora là, a seconda dei princìpi e, talvolta, – ahiloro – anche delle convenienze. «È il loro marchio di fabbrica», sottolinea giustamente il professor Campi, che sin troppo ingenuamente, però, li usa strumentalmente per dare forza alla sua idea di base, e cioè l’intolleranza del Pd. In questo caso nessuno «usa» nessuno, il Partito Democratico non sarà mai in grado (per fortuna) di piegare la pattuglia pannelliana a più miti consigli, e i Radicali potranno vivere di luce propria solo e soltanto nelle occasioni storiche nelle quali mettere in difficoltà l’alleato principe. È un’antichissima storia, e il vecchio Marco lo ha fatto senza alcun senso di colpa anche con Berlusconi.
Vogliamo togliere al Pd anche la possibilità di incazzarsi per i comportamenti dei Radicali? Suvvia Campi, un po’ di tolleranza.
Citiamo per soprammercato anche il Matteo Renzi, sindaco di Firenze e ometto in grande ascesa. Ma se nel mondo accademico, professor Campi, quello che le appartiene di più, un baldanzoso professorino si pronunciasse per la sua «rottamazione» con assai poca educazione, lei subirebbe senza reagire, persino al di là delle critiche espresse? Ma va là, chioserebbe Ghedini. Tra l’altro, con un filo di malizia ci sarebbe da notare che mai notorietà più piena e clamorosa è piovuta sul capo del Renzi da quando ha strapazzato la vecchia classe dirigente del Pd.
La conclusione, amara, è che il Pd (Bersani come tutti i segretari che lo hanno preceduto) vive malissimo la critica per la critica, nel senso del libero esercizio intellettuale del dissenso. E che purtroppo non riesce mai a mandare via nessuno. Chi se ne va, lo fa perché ha davvero voglia di andarsene. Incredibile, vero Professore?
Ps. Sul parallelo con il dissenso interno al Pdl di Berlusconi non ho cuore di intervenire, ma la rimando, gentile Professore, alla storia patria di questi ultimi diciassette anni.