Philo Dibble
(10 settembre 1951 – 1° ottobre 2011)
Diplomatico americano, in forza al Dipartimento di Stato, con doti particolari nelle mediazioni. Aveva 60 anni, era nato in Egitto, perché suo padre faceva parte dello staff dell’ambasciata degli Stati Uniti al Cairo. È morto d’infarto a casa sua, a McLean, Virginia. Il suo ricordo coincide con un breve resoconto sulla trattativa per liberare tre cittadini degli Stati Uniti dalla peggior galera iraniana. O almeno la più conosciuta. Tre ostaggi, e molta tenacia per farli rilasciare. Dato che questo ottobre è anche il mese di Gilad Shalit libero, un racconto come questo lo si scrive, e forse lo si legge, volentieri.
Dibble era nato quando in Egitto regnava, ancora per poco, Faruq. E a ridosso di un decennio che avrebbe rivoluzionato il Nordafrica e il Medio Oriente, e dove gli spendibili «margini della trattativa» (un aspetto, e una ginnastica dell’intelligenza, della diplomazia di ogni tempo) sarebbero stati temporaneamente rimpiazzati da colpi di Stato nazionali e socialisti, controcolpi da servizi segreti vari, insurrezioni anticoloniali, e gare Usa-Urss di protezione superpotente, nel controllato recinto della Guerra Fredda.
In pratica, Philo cresceva piacevolmente sul Mediterraneo e sul Nilo, e le scene della Storia che poteva captare con l’attenzione dei primi dieci anni di vita, erano la rivoluzione nasseriana, il complotto anglo-americano contro Mohammed Mossadeq in Iran, l’insurrezione algerina, la crisi di Suez, la truce fine della monarchia filoinglese a Baghdad, i primi segni della guerra civile libanese, eccetera.
Parlare qui, mezzo secolo dopo, di un tipo come Philo Dibble, e delle sue competenze adulte, può avere il valore di un aggiornamento: su come l’intelligenza, la tenacia, e la scelta delle mosse, anche nelle trattative più a tunnel, restino una risorsa ogni tanto vittoriosa. In particolare quando sono architravate da buoni studi e passaggi d’esperienza su territori scelti: il signor Dibble era forte di un Master degree in international studies alla Johns Hopkins University, è stato un massimo esperto in “Iranian affairs” al Dipartimento di Stato, e i suoi Paesi di servizio diplomatico sono stati la Tunisia, il Libano, il Pakistan, la Siria, l’Arabia Saudita. Il tutto, vissuto, da giovane, fra una tappa e l’altra (compreso il lavoro a Washington), fino al 2009.
E proprio in quell’anno – poco tempo fa – gli capitava di mettere alla prova – la più difficile – il suo grande o buon gioco. In ballo, come controparte, c’era quella “canaglia” dello Stato iraniano. Era successo che i signori Shane M. Bauer, Joshua F. Fattal, più la signorina Sarah E. Shourd (fidanzata di Bauer), tutti americani ed escursionisti con la passione dell’impervio, si trovassero, in giugno, fra la Turchia e l’Iran, in una zona di montagna, dove venivano intercettati e arrestati dalle guardie di confine di Teheran. L’accusa, ovvia: spionaggio. La difesa dei tre: perdita dell’itinerario, e nessun legame con il governo degli Stati Uniti. La verità vera: qualunque fosse, evoraporava nelle due tesi contrapposte. Ideologica, la prima. Coscientemente ingenua, l’altra. La conseguenza: incarcerazione veloce a Evin, il carcere della capitale, noto per la quantità di persone torturate o eliminate senza processo negli ultimi trent’anni.
L’intervento di Philo Dibble: prima ufficiale (richiesta di immediato rilascio, eccetera), poi indiretto, da tessitura ai fianchi. Data la conoscenza degli “Iran affairs”, Philo doveva valutare quanto quell’arresto fosse media propaganda antiamericana. E a quali mediatori esterni, a quali Paesi ricorrere per il primo piano della trattativa. Con una «sensibilità e una leadership» definite oggi – da Barack Obama – «indispensabili», Dibble sceglieva l’Oman e la Svizzera (che cura gli interessi degli Stati Uniti a Teheran) come intermediari. E si impegnava, praticamente, ogni giorno, in quell’impresa tanto più complicata in quanto gli sembrava, sempre di più, un reale, e brutto, “affare”. Cioè non solo un sopruso propagandistico, teatrale, dell’altra parte. Oltre a tutto, i giudici iraniani avevano decretato otto anni di carcere per Bauer e Fattal. Bisognava anche capire quando, e quanto, l’offerta di dollari avrebbe pesato in modo risolutivo. Alla fine, il tenace e diplomatico (nel senso più acuto del termine) Dibble ce l’ha fatta, anche se in tempi diversi: la signora Shourd veniva liberata nel settembre del 2010 dietro pagamento di una cauzione di 500 mila dollari, mentre Bauer e Fattal si sono fatti due anni ad Evin, prima del rilascio il 21 settembre scorso, anche loro dietro pagamento di 500 mila dollari a testa. Giusto in tempo – dieci giorni prima dell’infarto – perché quel «career Foreign Service officer who played a central role in their release» potesse godersi il suo successo.
Al suo arrivo in servizio nella sede diplomatica a Beirut, il 18 Aprile 1983, Philo Dibble non trovò nessuno a prenderlo all’aeroporto. Era senza un soldo e pagò il taxista con una stecca di Marlboro. Era il giorno in cui un attentatore suicida si era fatto esplodere uccidendo più di 60 persone nell’ambasciata americana.
Manfred Gerlach
(8 maggio 1928 – 17 ottobre 2011)
È morto, a Berlino, l’ultimo capo di Stato della Ddr, la Repubblica Democratica Tedesca. Aveva 83 anni.
Gerlach aveva una fila di caratteri, anche biografici, che oggi lo fa ricordare atipico nella successione di presidenti, o segretari di partito, o funzionari di importanza variabile, dei passati regimi Oltrecortina. Persone, naturalmente anziane, che stanno morendo, o che parlano poco della loro storia, o di cui ci si ricorda, quando va bene, a colpi di memoria intermittente. Magari perché c’è bisogno di un’intervista, e di rifarli vedere e parlare come dei remissivi pensionati, con qualche pentimento, e senza apparenti nostalgie.
Manfred Gerlach, uno dei meno noti di quel gruppo, ha invece mantenuto molta vitalità, ed è stato un ossimoro politico: un liberale tedesco – di Lipsia – rimasto tale, e con pubblici ruoli, nel sistema di pietra della Germania comunista. Dove un piccolo partito, ufficialmente “liberaldemocratico”, l’Ldpd, veniva altrettanto ufficialmente tollerato (entro i margini marcati della legge socialista) per ragioni di facciata.
Gerlach aveva anche (come Willy Brandt) una radice antinazista senza equivoci: figlio di un meccanico, aveva messo in piedi, a 16 anni, un gruppo d’opposizione studentesca, e, per questo, era finito in una prigione del Terzo Reich, nel 1944. La sua tecnica di vita attiva, e non di sopravvivenza, dentro il quasi mezzo secolo della Ddr, è stata ingegnosa: a Lipsia, e poi in Sassonia, fino ai primi anni Sessanta, riusciva a essere un leader, tanto della “Libera gioventù tedesca” simbiotica al Partito comunista, quanto del Partito liberaldemocratico. Di cui sarebbe diventato il segretario, affiancando poi anche la carica di borgomastro di Lipsia. E perfezionandosi, prudentemente acuto, come spina liberale del Paese del Muro, dei Vopos che sparavano ai fuggitivi, e di tutti quei funzionari grigio-beige così fedeli all’ideologia, alla Guerra Fredda, e all’Unione Sovietica. Che intanto, con Michail Sergeevič Gorbaciov, stava aprendosi e franando.
Nel celebre autunno del 1989 (9 novembre), la frana del Muro di Berlino faceva fare a Manfred Gerlach dei passi da gigante e un outing di liberalismo finalmente decensurato. Diventava presidente del Consiglio di Stato il 6 Dicembre, perché era un conosciutissimo uomo nuovo che due mesi prima aveva detto che cosa non si poteva non fare in quel frangente a valanga. Cose drastiche: fine del ruolo guida del Partito e delle restrizioni al lavoro e ai sindacati, libere elezioni, libertà d’espressione, apertura all’impresa, e quindi, alla proprietà privata. Lo aveva sempre pensato, glielo avevano anche parzialmente lasciato dire, in passato, e la scena di uno come lui che rappresentava uno Stato in punto di morte e di rinascita – anzi di riunificazione nazionale – poteva sembrare una variazione surrealista dell’antica formula «il re è morto, viva il re!». In quel quadro, i primi ministri cambiavano e cadevano in un batter d’ala: i comunisti vecchio stile Egon Krenz e Hans Modrow, e poi il terzo, e l’ultimo, il cristiano protestante Lothar de Maizière. Gerlach presidente sarebbe durato pochi mesi, e dopo, più liberale che mai, avrebbe riorganizzato il suo partito per le prime elezioni libere tedesco-orientali. Prime e uniche, dato che l’unificazione era nelle cose immediate.
Il quadro di questa settimana è un ritratto di donna del pittore norvegese Vebjørn Sand.