«Ieri l’altro eravamo i vincitori senza quasi saperlo, e quello era il vinto e lo sapeva. Ieri si sono già rinfrancati». Parole che sembrano pronunciate oggi, e invece sono del giugno 1924: un passaggio di una lettera che Filippo Turati scrive ad Anna Kuliscioff. “Quello” – il vinto – è Benito Mussolini che sembrava destinato a cadere all’indomani del delitto Matteotti. Invece le opposizioni scelgono di ritirarsi dal Parlamento (in una riunione tenuta nella sala dell’Aventino, da cui il nome) per smascherare le velleità totalitarie del capo del governo. Ma – in base al principio che gli assenti hanno sempre torto – la manovra si rivela un flop e, in definitiva, spiana la strada alla dittatura. «Se infatti “l’Aventino” liberò forze nuove nel corpo intellettuale e politico, che diedero vita a una fra le stagioni più ricche della vita culturale e politica dell’Italia, nel suo vertice politico produsse, in gran parte, l’inconcludenza e la mediocrità della vecchia classe dirigente che aveva spianato la strada al fascismo», scrive la Storia d’Italia dell’Einaudi. Le opposizioni dell’epoca, in sostanza, sono inconcludenti e mediocri.
Il 10 giugno 1924 una squadraccia fascista agli ordini di Amerigo Dumini (già aveva malmenato il liberale Giovanni Amendola che morirà nel 1926 per le conseguenze del pestaggio) assale e uccide Giacomo Matteotti, il deputato socialista di Rovigo aveva denunciato alla Camera le violenze e i brogli elettorali messi in atto dai fascisti (il cadavere sarà ritrovato solo il 16 agosto). Il regime vacilla, sembra che abbia le ore contate, Mussolini reagisce blandamente, con un rimpasto di governo che sembra non portare da nessuna parte.
E invece a dargli una gran mano accorre l’opposizione: divisa e litigiosa, ognuno propone una cosa diversa e alla fine si ritroveranno d’accordo soltanto nel non andare in Parlamento. I comunisti vorrebbero lo sciopero generale, i socialisti no. Il socialista Tito Zaniboni e Carlo Sforza (aderirà al partito repubblicano) avevano addirittura proposto di occupare Palazzo Chigi e costringere Mussolini alle dimissioni. Ma Giovanni Amendola, leader dei liberali, è contrario a qualsiasi forma di azione diretta. Un altro liberale, in un primo tempo acquiescente col fascismo, Luigi Einaudi, ora si schiera, e dal Corriere della sera invita gli imprenditori a prendere una netta posizione contraria al governo (invece gli industriali preferiscono l’ordine mussoliniano alle piazze socialiste). I popolari sostengono con decisione l’iniziativa, ma i capi riconosciuti dell’Aventino saranno, in una sorta di lib-lab anteguerra, Amendola e Turati.
La riunione delle opposizioni è prevista alle 16 del 27 giugno in una sala di Montecitorio. Sono presenti in 130, arrivano da ogni angolo d’Italia. Presiede Filippo Turati e l’onorevole Morea fa la chiama. Scrive La Stampa del 28 giugno: «Pronuncia anche il nome dell’on. Matteotti. Una voce grida: “Presente!”. E un fremito corre per l’assemblea che unanime scatta in piedi ed applaude per parecchi minuti. L’on. Turati, che è molto commosso, annuisce col capo come per dire: si è presente. Molti hanno le lacrime agli occhi e nessuno riesce a dominare la propria commozione». Turati poco dopo pronuncerà le celeberrime parole: «Noi parliamo da quest’aula parlamentare mentre non v’è più un Parlamento. I soli eletti stanno nell’Aventino delle nostre coscienze, donde nessun adescamento li rimuoverà sinché il sole della libertà non albeggi, l’imperio della legge sia restituito, e cessi la rappresentanza del popolo di essere la beffa atroce a cui l’hanno ridotta».
Contrario, assolutamente, all’Aventino è Giovanni Giolitti. L’ex presidente del consiglio liberale considera la secessione «uno sbaglio, un tradimento e in ultima analisi un atto di viltà», scrive Renzo De Felice in Mussolini il fascista. Lo storico riassume così il pensiero dello statista: «Se i deputati dell’Aventino fossero rimasti nell’aula a compiere fieramente il loro ufficio, sarebbero stati certamente inevitabili e prossimi incidenti gravissimi, e probabilmente le rivoltelle avrebbero sostituito le votazioni, data la tensione degli spiriti e la drammaticità del momento; ma si sarebbe così determinata e affrettata quella crisi che avrebbe probabilmente risolto la situazione». Il giudizio politico di Giolitti è sarcastico: «L’onorevole Mussolini ha tutte le fortune politiche: a me l’opposizione ha sempre dato fastidi e travagli, con lui se ne va e gli lascia libero il campo».
L’Aventino, «alla possibilità di un “compromesso” con una parte della maggioranza», scrive ancora Renzo De Felice, «preferì continuare nella propria protesta morale – tanto nobile quanto sterile politicamente – e nella ingenua convinzione che la chiave di tutto fossero la denuncia dei crimini fascisti e il processo ai responsabili immediati e ai mandanti del delitto Matteotti». In sostanza De Felice afferma che gli aventiniani volevano privilegiare la via giudiziaria rispetto a quella politica.
Né si creda che a determinare l’esito di quella che veniva chiamata “questione morale” sia stata la stampa. La stragrande maggioranza dei giornali – Gaetano Salvemini calcola in proporzione di dieci a uno – e tutte le testate più prestigiose sono schierati su posizioni antifasciste, ma questo non cambia di una virgola la capacità di affermarsi del regime fascista. E proprio nell’estate dell’Aventino arriva il decreto che mette il bavaglio alla stampa.