Votiamo quando volete, ma dateci un programma per crescere

Votiamo quando volete, ma dateci un programma per crescere

La lettera di Berlusconi a Bruxelles è l’ultimo attentato che l’imprenditore brianzolo farà al concetto di “apertura liberale”. In questa sua politica inafferrabile, di sorrisi e dichiarazioni, tifo e urla, si sono mescolati spesso concetti di “flessibilizzazione” del mercato del lavoro, apertura dell’industria, riduzione delle tasse. In realtà, non gli è riuscito mai nulla di tutto questo; ma ormai il fraintendimento è registrato nelle teste degli italiani: “liberale” corrisponde a Berlusconi. E la lettera non è un “libro dei sogni”, ma un testamento politico: è tutto ciò che il premier avrebbe voluto realizzare. È una condanna al paese: Berlusconi si farà seppellire nella sua tomba politica insieme alle idee di apertura economica.

La sfiducia va oltre l’operato di Berlusconi. La crisi avrebbe dimostrato il “fallimento del libero mercato”, e avrebbe scoperto il fianco alla “speculazione internazionale”. Eppure, ritenere che la crisi italiana e degli altri paesi mediterranei sia colpa della “finanza internazionale” è un atto di presunzione. Se il nostro paese ha raggiunto il 120% del debito pubblico sul Pil, e dopo decenni di stagnazione i cittadini di altri stati hanno difficoltà a prestarci soldi, la colpa è di chi ha contratto il debito, non di chi non presta. L’Italia è drogata di debito, e se le viene impedita una nuova dose, si ribella contro chi non le dà altro denaro. Tante sono le sirene: dalla decrescita fascista-ancestrale, a un’osservazione placidamente deterministica dei fatti internazionali, del tipo “la Cina emergerà, e il nostro destino è il declino”. Si propone un ritorno deciso allo statalismo.

Ma non facciamoci fregare di nuovo: è solo con la responsabilità di produrre ricchezza che se ne uscirà. Se siamo davvero un paese di creativi e di persone che si sanno adattare alle circostanze, come mai la Silicon Valley è nata in California, e non in Piemonte? Come mai le nostre campagne sono piene di capannoni della grande distribuzione estera, e quelle francesi o tedesche non ospitano supermercati italiani? Come mai le prime imprese in borsa sono tutte statali, o sono ex-monopoli statali, a parte Fiat e qualche banca?

Il problema è che lo stato italiano, tra i meno efficienti del mondo industrializzato, blocca continuamente la situazione, direttamente o indirettamente. Le mosse di “austerity” degli ultimi mesi perpetuano questo meccanismo corporativo. Tornare a produrre valore, con le tasse al 53% del Pil, è impossibile. Con il valore legale della laurea, è impossibile. Con il “posto fisso garantito”, è impossibile. Con le pensioni di anzianità, è impossibile. Riteniamo che nelle società industrializzate lo stato sociale si basi sulla capacità di produrre reddito, ma se continuerà a prevalere la diffidenza verso l’iniziativa privata, rimarremo intrappolati di ideologie stantie e impoverenti, quanto tranquillizzanti.

Solo nelle aziende private i volenterosi e i più bravi verranno premiati; solo così i sistemi saranno gestiti meglio, e si produrrà valore per tutti. Non è vero che lo stato sceglie meglio i talenti: sceglie solo gli amici, in una logica stretta di ubbidienza al capo, e li paga troppo. Lo ha stabilito anche Deng Xiaoping una trentina di anni fa: arricchirsi è glorioso! Non dobbiamo cadere negli eccessi, ma come mai le aspirazioni industriali degli italiani devono essere costantemente castrate da regole e tasse? Perché chi vuole produrre reddito deve “sentirsi in colpa” di “sfruttare” i propri dipendenti?

Il rinnovamento nascerà anche dal precariato, se i precari non avranno paura di mettersi in gioco. È qui che può sorgere il nuovo senso di responsabilità per la produzione di ricchezza. Continuare a sperare nel posto fisso vuol dire perpetuare la logica del “latifondo industriale”: è una forma di potere, una “concessione” da parte dell’imprenditore-padrone. È un caso unico al mondo: anche in Germania esiste la possibilità di licenziare se imposto dalle condizioni economiche aziendali. I precari devono pretendere che, oltre all’articolo 18, siano eliminati anche i contratti “capestro” delle collaborazioni a sfruttamento. Ma i precari devono esigere anche che il sistema economico sia finalmente aperto e gestito in base a logiche di merito. Con l’iniziativa privata e il merito si può rompere il sistema corporativo statale-padronale, che non è mai stato capace di tenere il passo dell’estero. O ci chiudiamo in noi stessi come la Corea del Nord, o riconosciamo il valore sociale ed economico di chi produce ricchezza.

Per carità: non proponiamo il liberalismo assoluto, ma solo una maggior apertura in senso privato. Ciò che abbiamo adesso non ha nulla di ideologico: è solo predazione. Tasse alte e soldi pubblici gestiti in maniera oscena; denaro a pioggia al Sud, prelevato ai ceti produttivi del Nord; ordini professionali chiusi (notai, giornalisti, avvocati); tasse da pagare anche sulle perdite e perfino per aprire una società (anche 3.000 euro di base). È solo un meccanismo di controllo contro le nuove iniziative imprenditoriali, che “rischierebbero” di intaccare il sistema economico stabilito.

Perché da noi il rinnovamento è urgente. Abbiamo perso troppe occasioni. Negli anni Ottanta il paese ha scelto la logica corporativa del debito, anziché quella dell’apertura al mercato. Negli anni Novanta ha svenduto, anziché entrare nei mercati emergenti. Negli anni Duemila si è tenuto ai margini della rivoluzione IT. Questo “sottomarino italiano” non ha voluto affrontare la questione principale: la responsabilità di produrre ricchezza. Ha preferito un lento e miope declino verso il fondo del mare economico, sperando nel posto fisso, concesso da imprenditori sfruttatori e benevolenti.

Insomma, votate quando volete, ma dateci un piano per crescere. La crescita è responsabilità: la nostra spesa sociale aumenterà in maniera spaventosa fino a oltre il 2030, e non c’è alternativa alla capacità di produrre reddito. Da esso dipende tutto, anche la nostra cultura e le nostre arti.

L’aspetto che preoccupa di più è che la critica alla “finanza internazionale” e all’Europa accomuna il governo e la sinistra più radicale. Per Berlusconi è giocoforza: dà a Bruxelles e a Wall Street la “colpa” di dover introdurre le liberalizzazioni, che comunque non gli riusciranno. Per parte della sinistra, è una scorciatoia populistica per accattivarsi il consenso in tempi di crisi. In un modo o nell’altro, si tratta sempre di demagogia, che dobbiamo contrastare per evitare di crogiolarci in questo interminabile declino.

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