«Se fossi al suo posto, mi dimetterei». Sono le parole del re Abdullah di Giordania, pronunciate lo scorso 14 novembre dopo la decisione della Lega Araba di sospendere la Siria. Il posto in questione è quello occupato dal presidente siriano Bashar al Assad, che traballa da marzo ma che mai come in questi ultimi giorni, è sembrato sembra in procinto di crollare. Di fronte, le proteste della popolazione, represse con l’impiego dei militari nel sangue. Il numero fornito dall’Onu tocca le 3.500 persone uccise, ma continua ad aumentare: solo venerdì, secondo il Centro di documentazione delle violazioni in Siria, sarebbero state uccise altre 37 persone, nella regione meridionale di Dara’a.
All’aumento della violenza, la comunità internazionale mostra di preoccuparsi, ognuna con misure diverse. Parigi ha richiamato il suo ambasciatore, seguendo l’esempio di Stati Uniti e Arabia Saudita. La Lega Araba, all’inizio di novembre, ha invece messo a punto un piano d’azione per risolvere il conflitto. Damasco ha accettato i termini (cessazione delle violenze, ingresso di osservatori internazionali, rilascio di prigionieri politici) ma non li ha applicati. La repressione è continuata, concentrandosi sulla città di Homs. Di fronte all’indifferenza di Bashar al Assad, la reazione della Lega Araba è stata dura, e ha sospeso Damasco, con un ultimatum di tre giorni per poi pronunciarsi sulle sanzioni. «Un errore storico», ha sostenuto ad Ankara il 18 novembre Alaaddin Burucerdi, presidente della commissione parlamentare iraniana per la politica estera. «La mossa», spiega Burucerdi «provocherà una guerra civile».
Un allarme. Il rischio indicato da Burucerdi è reale. Ma non solo: l’accusa rivolta alla Lega Araba tradisce il groviglio di interessi e di posizioni di forza internazionali che ruotano attorno a Damasco. Da una parte, l’azione congiunta di Turchia, Qatar e Arabia Saudita. Dall’altra, la posizione sempre più isolata di Teheran, che vede nell’intervento della Lega Araba anche la mano di Washington. «La Lega segue l’iniziativa degli Stati Uniti, con la scusa di simpatizzare con il popolo siriano», accusa Ali Larijani, presidente del parlamento iraniano. In mezzo a tutto, non va sottovalutato anche l’intervento delle altri grandi potenze. Francia e Inghilterra contano i giorni del regime e chiedono sanzioni più dure. La Russia, invece, invita alla moderazione e alla calma.
«Il rapporto tra Russia e Siria è di vecchia data», sottolinea a Linkiesta Silvia Colombo, ricercatrice in relazioni euro-mediterranee presso l’Istituto di Affari Internazionali. «Risale ai tempi della guerra fredda. La Siria era schierata nella sfera di influenza russa. A differenza, ad esempio, di Arabia Saudita ed Egitto». Ma non solo: «i rapporti sono vivi ancora oggi: la Siria ospita anche basi militari e navali russe, come a Latakia». Fatto che denota un particolare interesse da parte di Mosca, che vede minacciato il suo sbocco sul mediterraneo.
Ma se i venti di guerra cominciano a soffiare, l’opposizione della Russia non sarà così nitida. Anche perché, «per non contrastare il mondo occidentale», spiega la dottoressa Colombo, «è facile prevedere che Mosca non appoggerà Damasco a oltranza». E se la Lega Araba, che ha respinto le proposte di Assad per alcune modifiche al piano di invio degli osservatori internazionali in Siria, mette allo studio le sanzioni, al tempo stesso non lasciano dubbi le affermazioni del leader dei Fratelli Musulmani siriani, Mohammad Riad Shakfa che, dall’esilio, non esclude l’intervento turco. «Il popolo siriano accetterà un intervento della Turchia», spiega, «se l’obiettivo sarà la protezione della popolazione».
Del resto, Ankara «da tempo ha intensificato il proprio ruolo nella regione, non solo a livello diplomatico», continua la dottoressa Colombo, «ma con una serie di azioni concrete». Non ultimo, l’ospitare da luglio il colonnello disertore Riad al Asaad, che dall’estero organizza la resistenza ed è il principale responsabile delle massicce defezioni nell’esercito, che sono arrivate a quota 17.000 e sono andate a formare un vero e proprio esercito in opposizione al regime: l’esercito per la Siria libera. Le azioni intraprese hanno portato a un’escalation di violenza: di fronte alle milizie di Assad non c’è più la popolazione civile, ma un’esercito preparato, dal punto di vista numerico meno forte, ma equipaggiato e armato.
Insomma, sono venti di guerra, forse civile. La corsa alle sanzioni sembra lenta, le iniziative internazionali impacciate. Da marzo si protesta, si manifesta e si muore. Assad traballa, ma non cade. E le tensioni dei paesi vicini crescono. Da dietro, l’ombra dell’Iran solleva la minaccia del nucleare, dall’altra parte Israele sembra poter scatenare un nuovo conflitto. «È presto per dirlo. Ma un attacco all’Iran potrebbe ricompattare la popolazione, contro l’intervento di Israele e dell’occidente». E travolgere per sempre la Primavera.