Ora è sempre più difficile. Non solo per l’Italia, che paga interessi del 6% sui bond decennali, ma per il sistema bancario nazionale, che ha quei titoli in portafoglio e per questo annaspa colpito da pesanti ondate di vendite. A dispetto delle ostentazioni di sicurezza di chi, come il ministro dello Sviluppo Economico, Paolo Romani, è convinto che il Paese sia «perfettamente in grado di sostenere i tassi che paghiamo per il nostro debito», per le banche italiane andare sul mercato a reperire capitali è ogni giorno più rischioso.
La scorsa settimana, l’Eba (European banking authority), la superautorità del comparto presieduta da Andrea Enria, ha annunciato che il sistema bancario europeo necessita di ricapitalizzazioni pari a 106 miliardi di euro. Di questi, 14,771 miliardi spettano all’Italia. Nello specifico, secondo le indicazioni di Palazzo Koch, per raggiungere un coefficiente di patrimonializzazione (Tier 1) al 9%, come richiesto dall’Eba, Intesa Sanpaolo non avrà bisogno di nuove iniezioni di capitale, mentre il Monte dei Paschi di Siena dovrà recuperare 3,091miliardi freschi, e UniCredit 7,39 miliardi di euro.
Dopo le critiche di Mussari, presidente di Mps e dell’Abi, la lobby bancaria italiana, che ha annunciato azioni legali per via della disparità di trattamento contabile tra i bond italiani, considerati da svalutare, e quelli francesi e tedeschi, considerati sicuri visto il rating a tripla A (il massimo dei voti) di Parigi e Berlino, ieri è stata la volta di Giovanni Bazoli. Il presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo ha rivolto un appello alla politica, chiedendo riforme per sedare l’innalzamento dei costi della raccolta per gli istituti italiani. In caso contrario, ha detto Bazoli, lo Stato italiano sarebbe costretto a intervenire per salvarle, tornando indietro di 30 anni alle Bin, le banche d’interesse nazionale, per evitare che diventino facile preda di gruppi stranieri.
Critiche a parte – anche il presidente delle Fondazioni riunite nell’Acri, Giuseppe Guzzetti, si è detto arrabbiato perché le decisioni dell’Eba «salvano gli interessi francesi e penalizzano quelli italiani» – a livello operativo reperire fondi con l’attuale mancanza di visibilità sui mercati è impresa disperata. Il Ftse Mib (-5,05% alle 11.30) principale listino italiano, da un anno a questa parte ha perso il 29,18 per cento. I market mover, i titoli cioè che hanno la potenza di fuoco per influenzarne l’andamento, non hanno certo segnato performance migliori, soprattutto sul versante bancario: Intesa Sanpaolo (-11% alle 11.30) ha ceduto il 45,5% rispetto a 365 giorni fa, e capitalizza poco più di 20 miliardi di euro, UniCredit (-11,3% alle 11.30) il 54,7%, e vale 16,6 miliardi, mentre Monte dei Paschi di Siena (-5,6% alle 11.30) il 62,6%, per una capitalizzazione di 3,7 miliardi di euro. Poco più di quanto l’Eba le abbia chiesto di riacapitalizzare. Difficile anche la situazione di Mediobanca (-26,6% yoy, valore di borsa pari a 5 miliardi), Ubi (-62,91 yoy, valore 2,5 miliardi di euro), Banco Popolare (-64,18%, valore 1,9 miliardi) e Banca Popolare di Milano (-61,63%, valore 201 milioni di euro) e un aumento da 800 milioni di euro deliberato a fine settembre. Prese insieme, le principali banche italiane – l’unica sopra la soglia psicologica di un euro per azione è Intesa – valgono meno della metà del colosso della telefonia Vodafone (102 miliardi di euro).
Il dilemma degli istituti italiani non è legato soltanto alla volatilità. Le Fondazioni, che nella maggioranza dei casi sono i principali azionisti delle banche, da un lato non hanno soldi da investire negli aumenti di capitale, dall’altro vedono come fumo negli occhi una diluizione del loro pacchetto azionario. In alcuni casi sfiorando il paradosso, come a Siena, dove l’ente guidato da Gabriello Mancini ha preferito indebitarsi per 600 milioni di euro pur di non mollare la presa su Rocca Salimbeni.
Un aiutino, tanto per Piazza Cordusio che per l’istituto senese, potrebbe però arrivare grazie al conteggio degli strumenti ibridi (obbligazioni convertibili in azioni) emessi dalle due banche nel capitale di vigilanza. Una mossa consentita da Bankitalia, ma sulla quale la posizione dell’Eba non è ancora chiara. Le regole di Basilea III, infatti, non consentirebbero di conteggiare il prestito convertibile Fresh emesso nel 2008 da Mps e attualmente in mano a JP Morgan, al contrario dei 318 milioni Fresh sottoscritti dalla Fondazione nell’ambito dell’aumento di capitale da 2,47 miliardi di euro deliberato nel cda dello scorso giugno, che saranno invece trasformati in azioni. Stesso discorso per i 3 miliardi del prestito convertibile Cashes emesso nel 2009 e ristrutturato quest’estate su indicazione di Bankitalia. Per l’a.d. Ghizzoni, insomma, l’aumento sarà di 4,3 miliardi.
Se del doman non v’è certezza, gli aumenti di capitale non fanno eccezione. Secondo una tempistica standard e indicativa, infatti, per chiudere operazioni simili servono 100 giorni, da quando l’assemblea degli azionisti dà il via libera a quando termina il periodo di asta dell’inoptato. Tempi troppo lunghi per convincere gli azionisti a sottoscriverli a cuor leggero. Effetti collaterali? L’aumento i premi che la clientela, imprese e famiglie, deve sopportare per sottoscrivere fidi e mutui. Un problema che da finanziario diventa sociale. La palla passa a Mario Draghi, oggi al primo giorno da presidente della Bce.