Con i mortai, con i panzer, con gli euro: la tendenza dei tedeschi di andare a far danni in Grecia è secolare. Ora Frau Merkel fa la ritrosa di fronte alla chiamata per salvare le sorti di Atene, in altre occasioni i suoi antenati si sono mostrati ben più determinati a intervenire, anche se le condizioni dell’intervento erano ben diverse: più distruttive che ricostruttive.
Il 26 settembre 1687, verso le sette di sera, Atene viene scossa da un botto immane: è saltato per aria il Partenone. A farlo esplodere è un colpo di mortaio sparato da un tenente della città di Lüneburg, nella Germania settentrionale (la storia non ce ne tramanda il nome), che fa parte della coalizione al comando del veneziano Francesco Morosini. Succede questo: i veneziani nel 1684 muovono guerra all’impero ottomano, che da due secoli occupa la Grecia. Per combattere i turchi mettono in piedi una coalizione dove sono massicciamente presenti contingenti tedeschi (più di un terzo delle truppe), oltre a reggimenti milanesi, toscani, papalini, maltesi. Terminata la conquista del Peloponneso, a inizio settembre 1687 giunge l’ordine di prendere Atene. Per farlo Morosini deve assediare l’Acropoli, dove i turchi si sono rifugiati, e deve far saltare la polveriera che gli ottomani hanno sistemato nell’edificio più solido della rocca, il Partenone, giunto quasi intatto dai tempi di Pericle. I serventi dei mortai veneziani non sono sufficientemente abili nel colpire l’obiettivo, il comando viene trasferito ai tedeschi e quell’anonimo ufficiale sassone di Lüneburg si intestardisce a sparare contro il tempio greco finché non lo fa saltare in aria. I turchi, oltre alla polvere da sparo, avevano pensato di mettere al riparo nell’edificio parte della popolazione civile: muoiono in trecento e il Partenone brucia per due giorni, eruttando fiamme e pezzi di pietra come fosse un vulcano.
Passano due secoli e mezzo, la Serenissima repubblica non esiste più, c’è invece un Regno d’Italia dominato dal regime fascista. Il 28 ottobre 1940, nell’anniversario della Marcia su Roma, Benito Mussolini decide di marciare su Atene. Per farlo la soluzione più semplice sarebbe stata quella di ricalcare le orme di Morosini: sbarcare le truppe al Pireo e penetrare nella capitale greca, distante una decina di chilometri (oggi quella distanza non esiste più: Atene e il suo porto sono un tutt’uno). Ma Morosini era un ammiraglio, e ti pare che un generale dell’esercito si mette a replicare le gesta di un marinaio? Non sia mai. E così gli italiani entrano in Grecia passando dall’Albania, attraverso le montagne dell’Epiro. Anziché ai marinai, l’invasione viene affidata agli alpini che, in un paese circondato dal mare e con migliaia di isole, è una scelta bella coerente. La Regia Marina, al tempo potente strumento di guerra, viene tenuta fuori: i porti di Atene e Salonicco non vengono bloccati, gli inglesi mandano rifornimenti e soprattutto aerei che si acquartierano in quattro aeroporti ellenici dai quali colpiscono comodamente i soldati italiani e i pozzi petroliferi romeni di Ploesti, in mano tedesca. Le truppe italiane si impantanano sui monti dell’Epiro e l’offensiva si ferma, tanto che i greci possono passare a loro volta all’attacco.
I giorni decisivi sono proprio quelli del novembre 1940. Il 14 le truppe del generale Alexandros Papagos si scagliano contro gli italiani. I greci sono in netta superiorità numerica (250 mila contro 150 mila) e sfondano le difese del Regio esercito. Tre giorni prima, nella notte tra l’11 e il 12, i britannici, tanto per far capire che aria tira, mettono in ginocchio la flotta italiana con l’incursione contro Taranto: in 90 minuti un gruppo di 21 aerosiluranti affonda una corazzata italiana e ne danneggia altre due, danneggiando pure un incrociatore. Il 18 novembre 1940 è il giorno in cui Mussolini pronuncia la celebre frase: «Spezzeremo le reni alla Grecia». Ma proprio nel medesimo giorno il suo ministro degli Esteri, Galeazzo Ciano, si incontra con Adolf Hitler a Berchtesgaden, il “Nido dell’aquila”, sulle montagne bavaresi. Hitler era stato informato soltanto a cose fatte dell’invasione della Grecia. Non aveva detto nulla, ma non ne era affatto contento perché l’iniziativa italiana nei Balcani collideva con la sua volontà di colpire la Russia. Ora invece se la prende di brutto e rinfaccia a Ciano gli insuccessi italiani nell’Ellade. Alla fine un accordo si trova: i tedeschi avrebbero tratto d’impaccio gli alleati intervenendo con i loro reparti. Ma non subito, in primavera, con la stagione propizia.
Il 6 aprile i panzer tedeschi entrano in Grecia dalla Bulgaria e puntano su Salonicco. La Blitzkrieg riesce in pieno: il 20 aprile i greci offrono la resa, però solo ai tedeschi e non agli italiani. Mussolini si infuria al punto tale da far ripetere la cerimonia tre giorni dopo, presenti anche gli ufficiali del Regio esercito. Il 3 maggio i tedeschi e gli italiani sfilano per Atene.
Dopo che gli hanno distrutto in conto terzi il monumento più illustre dell’antichità classica e gli hanno invaso in conto terzi il paese, si capisce bene perché oggi i greci appaiano un tantinello riluttanti a farsi salvare dai tedeschi.
*Alessandro Marzo Magno è l’autore di Atene 1687, Venezia, i turchi e la distruzione del Partenone, il Saggiatore