Tutti a casa. O quasi. Il colpo di spugna con cui il ministro della Giustizia, Palmiro Togliatti, il 22 giugno 1946 firma l’amnistia per i detenuti politici, è di quelli epocali. In quei drammatici anni di ricostruzione post bellica c’era bisogno di fare piazza pulita del passato. Altri Paesi europei, Germania in testa, scelsero di fare i conti con la propria storia; l’Italia invece decise di nascondere la polvere sotto il tappeto. Le conseguenze di quella scelta scellerata le paghiamo ancor oggi, quando Mussolini viene definito «grande statista» o si dice che il fascismo «mandava la gente in vacanza» nelle isole.
L’atto, voluto dal comunista Togliatti, viene approvato all’unanimità dal Consiglio dei ministri e controfirmato dal presidente del Consiglio, il democristiano Alcide De Gasperi. Lo sforzo è quello di presentarlo come un fatto di giustizia di cui non avrebbero beneficiato quelli che si erano macchiati dei crimini più gravi. «È evidente che il legislatore ha voluto con questa formula negare giustamente i benefici dell’atto di clemenza a coloro che abbiano assunto le maggiori responsabilità politiche o si siano macchiati, nella sfera della collaborazione col tedesco invasore, dei più odiosi delitti o abbiano agito esclusivamente per un fine abietto di lucro. Ma, appunto perché la formula può dar luogo a discussioni e interpretazioni diverse, si attende che il legislatore precisi interpretazione più adeguata da dare a essa rispondente ai fini di generosa clemenza e, nel tempo stesso, di giustizia sodale ai quali il provvedimento è ispirato», scrive La Stampa del 23 giugno 1946.
Come si capisce già da queste parole, all’interno della norma si scorge la possibilità di far entrare dalla finestra ciò che si vuol tenere fuori dalla porta. Poche righe più in basso il medesimo giornale scrive che dall’amnistia restano esclusi i membri della banda Koch (il famigerato reparto di polizia speciale e informale della Repubblica sociale), il cui processo si stava aprendo in quei giorni, ma quattro torturatori della banda escono subito, assieme a un colonnello condannato all’ergastolo per l’omicidio dei fratelli Rosselli. Su questo fatto, ovvero sul colpo di spugna di cui hanno beneficiato anche gli autori di delitti gravi e odiosi, si è aperto un dibattito infinito.
Togliatti – che un ragioniere veneziano definì «ministro di Grazia, ma non di Giustizia» – tentò di accreditarsi come il padre nobile dell’amnistia e addossò alla Dc le colpe della sua scellerata applicazione.
In realtà le cose non stanno affatto così. A squarciare il velo delle menzogne è stato lo storico Mimmo Franzinelli che nel suo libro L’aministia Togliatti, pubblicato nel 2006, ovvero per il sessantesimo anniversario dell’amnistia, rivela il contenuto delle carte dell’ex segretario comunista contenute nei fondi archivistici conservati nella Fondazione Istituto Gramsci. «Sono documenti dai quali la proverbiale “doppiezza” togliattiana emerge con un’evidenza quasi imbarazzante», scrive Sergio Luzzato, docente di storia all’Università di Torino, nella recensione che pubblica nel Corriere della Sera. In sostanza i comunisti, che uscivano da quindici anni di clandestinità, avevano bisogno di ritrovare i collegamenti persi all’interno della società italiana, il Pci «voleva trasformarsi in partito di massa, e aveva la necessità di rompere il ghiaccio con quei settori della società italiana che avevano servito il regime.
Ecco perché Togliatti, che in un primo momento era tutt’altro che entusiasta del provvedimento, si decise a varare l’amnistia», dichiarava Mimmo Franzinelli in un’intervista al Sole 24 Ore, che prosegue così: «Il segretario comunista aveva varato un’amnistia bipartisan, che avrebbe dovuto comprendere anche i reati commessi dai partigiani ed escludere i reati peggiori, ma in realtà pochissimi uomini della resistenza beneficiarono del condono, mentre moltissimi criminali furono liberati.
Il motivo? Togliatti, laureato in giurisprudenza, aveva scritto personalmente la legge, senza neanche farla correggere dagli specialisti. Questo errore di presunzione lasciò molto campo all’interpretazione estensiva della magistratura, perlopiù composta da uomini anziani e che avevano fatto carriera sotto il regime fascista». E infatti, come sottolinea Luzzato, nella Suprema corte siedono giudici che avevano fatto parte del Tribunale per la difesa della razza e «riconobbero ai criminali fascisti il diritto di venire amnistiati: quando tutta un’italica cultura da Azzeccagarbugli valse a mascherare con gli argomenti del giure le ingiustizie più flagranti. Chi aveva comandato i plotoni d’esecuzione di Salò venne assolto dall’accusa di omicidio perché non aveva personalmente imbracciato il fucile. Chi aveva stretto nelle morse i genitali degli antifascisti fu amnistiato perché la tortura non era durata particolarmente a lungo. Chi aveva promosso lo stupro di gruppo delle staffette partigiane venne giudicato colpevole di semplice offesa al pudore femminile».
«Togliatti scrisse personalmente la legge», dichiarava Franzinelli al Sole, «ma fece l’errore di sottovalutare il ruolo della magistratura e la forte reazione di protesta della base comunista. Ecco perché, appena venti giorni dopo il varo del provvedimento, Togliatti scaricò la patata bollente al compagno di partito Fausto Gullo, rinunciando all’incarico di ministro della Giustizia nel nuovo governo De Gasperi. Da lì in poi ci fu il tentativo della storiografia comunista di discolpare il “Migliore” che, al momento di lasciare Palazzo Piacentini, portò via con sé le carte sull’amnistia. Per tutti questi anni i documenti furono dati per dispersi, sino a quando non li ho ritrovati nell’archivio dell’Istituto Gramsci».
La Stampa del 23 giugno 1946 scrive: «Si calcola, in linea approssimativa, che tra l’amnistia e il condono verranno liberati o avranno ridotta la pena 30 mila persone e che, comprendendo le multe, la cifra dei beneficati potrà salire a 50 mila». Secondo Franzinelli, invece, la cifra rimarrà più bassa: «Difficile quantificare il numero esatto delle persone. Diciamo che siamo nell’ordine delle diecimila unità. Le prime persone a beneficiare del provvedimento furono i gerarchi di più alto grado, che avevano i soldi a disposizione per pagare i migliori avvocati e per oliare i meccanismi della macchina giudiziaria. Per quanto riguarda invece il dopo-amnistia, bisogna ricordare come negli anni seguenti i due terzi della base parlamentare del Msi sarà costituito da parlamentari amnistiati. Questo perché in Italia, a differenza di altri paesi europei, l’amnistia non previde l’esclusione dalle cariche pubbliche per i collaborazionisti, come erano di fatto i gerarchi della Rsi».
Ecco, appunto, scurdammoce ’o passato, anche quando farlo costituisce la base di quella che Luzzato definisce «una vergogna nazionale». E poi le amnistie sono come le ciliegie: una tira l’altra.
Se ne sarebbe varata una anche nel 1948 – promotore un sottosegretario alla presidenza del Consiglio di nome Giulio Andreotti – e un’altra nel 1953 con la quale si resero nulli i reati compiuti fino a tre anni dopo la fine della guerra. La definizione «ministro di Grazia e non di Giustizia» si attaglia anche ad altri.