Prelievo sui conti correnti, ecco la volta dell’Italia

Ai tempi del governo amato

«Un prodotto difficile da digerire, ma assolutamente necessario per un Paese che si trova sull’orlo del precipizio». Parole dure, quelle pronunciate dal presidente del Consiglio, ma di fronte alla gravità della situazione non c’è più tempo da perdere. E il ministro del Tesoro rincara la dose parlando di «un contributo che chiediamo alla gente che deve mettere una mano sul cuore e una sul portafogli». L’Italia ha deciso: deve dimostrare che è capace di risollevarsi con le proprie forze e anche se una parte dell’origine della crisi è dovuta a un paese che respinge le direttive europee, non si può certo pensare di star seduti a guardare che succede.

Non è una cronaca di questi giorni, ma di quasi vent’anni fa, dell’11 luglio 1992 quando viene varata la manovra che permette all’Italia di entrare nei parametri di Maastricht (il trattato era stato da poco respinto dalla Danimarca con un referendum) e quindi nell’euro. Si dà il via alla manovra da 30 mila miliardi di lire, del prelievo forzoso del 6 per mille sui conti correnti, della patrimoniale, della liberalizzazione degli affitti e della fine dell’equo canone, dell’aumento dell’età pensionabile a 65 anni, ma anche della detassazione degli utili reinvestiti e di una tranche di privatizzazioni; la manovra Amato, insomma.

La squadra che vara i provvedimenti è di tutto rispetto: Presidente della repubblica è Oscar Luigi Scalfaro, governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi. Il governo quadripartito (Dc, Psi, Psdi, Pli) è presieduto dal socialista Giuliano Amato, la triade economica (non c’è ancora un ministero unico) vede al Tesoro un tecnico, Piero Barucci; al Bilancio un socialista, Franco Reviglio; alle Finanze un democristiano, Giovanni Goria. Un ruolo di rilievo ce l’ha un sottosegretario al Tesoro la cui carriera non finirà con il crollo della Prima repubblica. In tasca ha la tessera del Psi e di nome fa Maurizio Sacconi. È lui, la sera del 10 luglio, ad annunciare ai giornalisti: «Sarà una lunga notte». Non lunga, lunghissima.

Giuliano Amato si presenterà ai giornalisti dopo una veglia di 48 ore. Nervosissimo, compie gesti che non gli sono propri: «Specie quando sbatte i pugni sul tavolo, facendo saltare il castelletto dei microfoni che gli sono davanti. O quando, con un urlaccio, richiama al silenzio i cronisti che dettano dai telefonini», scrive Elena Polidori su Repubblica. Si scusa, pure, perché si rende conto dell’enormità della manovra. «Chiederci scusa è dunque il minimo che Amato possa fare, anche se le sue scuse vanno cortesemente, ma fermamente rimandate al mittente. Ciò premesso, vediamo se il tampone sia stato almeno confezionato con materiali di accettabile qualità. I tagli sono molto pochi. Alcuni sono qualitativamente inaccettabili, come quelli sull’Università. Altri sono impraticabili, come quelli sulla Difesa», osserva il direttore di Repubblica, Eugenio Scalfari, in un fondo intitolato «Attenti a tosare le pecore».

A quel provvedimento si è arrivati attraverso una ridda di ipotesi che si sono inseguite smentendosi l’un l’altra. Si parla di aumento della tassazione sui Bot, di addizionale Irpef, di imposta minima per i lavoratori autonomi, di aumenti dei ticket sui medicinali, ma si tratta solo di voci, di ipotesi di lavoro che non sarebbero dovute uscire dagli uffici ministeriali (e Amato se la prende di brutto con chi ha fatto filtrare le indiscrezioni), il presidente del Consiglio non vuole approvare «piccole, inutili, cattiverie», come egli stesso le definisce, ma misure che possano davvero allontanare il Paese dal baratro, o, secondo la definizione del ministro del Tesoro, Barucci: «Tagliare la gamba in cancrena prima che infetti tutto il corpo». Allora via con la patrimoniale «che di precedenti non ne ha, se non lontani», scrive Stefano Lepri su La Stampa, e che viene suggerita e caldeggiata dalla Banca d’Italia, ovvero da Ciampi.
A una riunione ne segue un’altra. «Alle 22.50 arriva il ragioniere generale dello Stato, Andrea Monorchio. È reduce da una riunione fiume in via XX Settembre, al Tesoro. «Non so nulla», taglia corto nervoso. «Le misure le decidono i signori ministri». Sale. Alle 23.30 è la volta dei tecnici delle Finanze. Ma vanno via, a scrivere i decreti. È il momento di avvertire i sindacati sulle ultime scelte. Sono ormai le 23.45 quando il numero due della Cgil, Ottaviano Del Turco, assonnato, arriva in piazza Colonna», scrivono Antonio Macaluso e Dino Vaiano nel Corriere della Sera.

Che si è arrivati alla stretta finale lo si capisce proprio quando vengono riconvocati i dirigenti sindacali. «È la notte tra giovedì e venerdì. I sindacalisti sono già in pigiama quando nelle loro case, alle 23.30, squillano i telefoni. È Giuliano Amato che, abolito il verbo dormire, li richiama di corsa a Palazzo Chigi per l’ultima maratona. Il presidente del Consiglio e i suoi ministri economici non vogliono mollare: bisogna varare le misure da 30 mila miliardi per arginare il deficit. Subito. Chi spera in un rinvio sbaglia. Amato capisce che è una corsa contro il tempo. Sa che se rinvierà il Consiglio dei ministri fissato per le 12, rischia di perdere il controllo della situazione. Il governatore della Banca d’Italia sa che la lira è appesa a un filo: se la manovra sarà debole, le difese monetarie varate domenica scorsa non basteranno ad arginare il marco», scrive ancora il Corriere della Sera.

Una curiosità: il segretario generale della Cgil, Bruno Trentin, non si trova, allora arriva il suo vice, Del Turco, socialista, così come socialista è il segretario della Uil, Pietro Larizza. Da questo vertice tutto all’insegna del garofano sembra essere escluso solo Sergio D’Antoni, segretario della Cisl. Ma l’accordo si trova sulla base dell’emergenza da affrontare, non certo delle appartenenze. I tre segretari dicono ai giornalisti: «Faremo l’alba». Così sarà. «Alle 12.30 scocca l’ora dei sacrifici per gli italiani. Amato presenta al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro quello che fin dal primo momento ha battezzato “pacchetto Maastricht”», conclude il Corriere. L’Italia è salva. Per quasi vent’anni. Poi si ricomincia.

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