Nella pancia delle principali banche del Paese ci sono 160 miliardi di euro di titoli di Stato italiani. Nello specifico Intesa Sanpaolo ne ha sottoscritti 57,6 miliardi, UniCredit 47,4, Monte dei Paschi 32, Banco Popolare 11,5 e Ubi Banca 10,1 miliardi. A causa di questi titoli di Stato, gli istituti italiani – che spesso, nel caso di Ca de’ Sass e Piazza Cordusio fanno da collocatori per le emissioni del Tesoro – hanno mediamente perso la metà del loro valore in Piazza Affari. La loro attuale capitalizzazione, presa complessivamente, è inferiore ai 40 miliardi di euro, cioè la metà di quella del colosso della telefonia Vodafone.
Proprio per la rischiosità del debito italiano le stanze di compensazione (clearing houses) Lch, tra i leader in Europa, e l’italiana Cassa di compensazione e garanzia (Ccg) hanno alzato i margini richiesti per lo scambio di obbligazioni italiani. Significa che chi vuole scambiare titoli di debito deve depositare a garanzia il 3,5% in più sulle brevi scadenze e il 5% in più sul decennale. Significa che, ad esempio, per un Bot annuale il margine è passato da 2,45 al 6,45% mentre sul Btp decennale da 6,65% a 11,5 per cento. Alzare i margini significa rendere più costosa la raccolta della liquidità sul mercato per gli istituti di credito, che si ritrovano a dover chiedere alla clientela, famiglie e imprese, tassi maggiori su fidi e prestiti.