Ricordate il concorso per un posto da ricercatore all’Università de Piemonte Orientale? Su tredici candidati, il vincitore è risultato quello con il curriculum più debole. Ma che, a suo vantaggio, poteva vantare una fitta serie di lavori scritti insieme al Presidente di Commissione. Insomma, l’ipotesi di un concorso all’italiana, cioè pilotato e in cui il vincitore è già deciso, è sembrata più che un sospetto. Tanto che, dopo aver raggiunto le 100 firme, è stata resa pubblica una petizione sulla questione. Un gruppo di docenti ed esperti del settore si rivolge al rettore dell’Università, il professor Paolo Luciano Garbarino, e chiede conto della decisione presa dalla commissione, esprimendo tutte le «forti perplessità».
Le firme crescono di ora in ora e sono nomi “pesanti”. Da Luca Andriani, del Birckbeck College di Londra, a Michele Boldrin, della Washington University di St Louis. E Alberto Bisin, della New York University ma anche Matteo Rizzolli dell’Università di Bolzano, Roberto Piazza del Fondo monetario internazionale, Antonio Mele ricercatore a Oxford, Claudio Piga della Loughborough university, Francesco Bripi della Banca d’Italia, Margherita Comola della Sorbona, Paolo Crosetto del Max Planck di Jena. Ma non mancano assegnisti, ricercatori, di tutte le materie e discipline. L’appello è stato raccolto da tutte le parti d’Italia: scrivono dall’Università di Messina, Verona, Venezia, Pavia, Napoli, Bologna, Sassari. Dalla Normale di Pisa alla Francia, dalla Gran Bretagna, dalla Svezia, Usa, Canada. Insomma, ha fatto il giro del mondo, lungo le direttrici della diaspora accademica italiana.
Per farsi un’idea, spiegano, basta un esame del curriculum. Qui «emerge una evidente disparità tra la qualità media dei profili dei candidati non vincitori» e quella del candidato che, invece, ha vinto. Nel senso che il vincitore è peggiore degli altri sotto ogni aspetto. Innanzitutto, «la vincitrice rivela una produzione scientifica significativamente inferiore a quella di tutti gli altri 12 candidati». Non ha «nessuna pubblicazione su rivista, né internazionale né italiana». Gli altri sì. Non solo: alcuni di loro hanno pubblicato su riviste internazionali «di reputazione consolidata – se non elevatissima – presso la comunità scientifica».
Secondo alcuni indici di valutazione come l’ISI, Impact Factor (IF), oppure l’H Index personale (PHI), che considerano secondo schemi differenti il numero di volte in cui l’articolo viene citato e la sua diffusione (cioè l’impatto), la vincitrice «risulta invariabilmente ultima». La Commissione ha scelto (contro il testo del bando stesso) di non avvalersi di questi indici. Ma cambia poco. Anche perché, valutando “l’originalità” dei contributi come criterio base, salta agli occhi un altro fatto sospetto: la maggior parte dei lavori scientifici della vincitrice sono stati scritti in collaborazione con il presidente della Commissione. Un conflitto d’interesse enorme.
Insomma, le conclusioni da trarre sono poche, e sconsolanti. La ricercatrice legata alla figura del presidente di Commissione ha superato il concorso, pur non avendo le credenziali e, al contrario, essendo tra tutti i candidati quella meno preparata. Come argomentano alcuni, ci possono essere le più svariate ragioni per falsificare i concorsi: non pochi sottolineano come la costanza e la fedeltà della vincitrice sia comunque un merito. Il fatto di aver già lavorato con il professore la renderebbe più affidabile rispetto a un concorrente più titolato ma più imprevedibile. Non condivisibile, forse, ma senz’altro vero.
In ogni caso, in questo modo si rende inutile l’istituto del concorso. Peggio: lo si squalifica. Non si sfruttano i vantaggi della competizione di persone titolate. Si cancella la chiarezza, preferendo muoversi nell’oscurità e consegnando all’arbitrio dei docenti (o a una complessa rete di favori tra accademici e atenei) destini di carriere universitarie, scientifiche e lavorative. Questo dell’Università del Piemonte Orientale è un caso emblematico. Come concludono nella petizione, «gli accadimenti gettano un’ombra» sui criteri e la trasparenza dell’Università, con il rischio, molto concreto, che queste situazioni possano scoraggiare «i giovani ricercatori a continuare a credere al valore e al futuro delle nostre istituzioni accademiche».